Il diritto all’oblio nella società digitale: “right to be forgotten” nell’Internet che non dimentica

In questo articolo si discute il ruolo della memoria e dell’oblio nella costruzione dell’identità personale e sociale, confrontando l’era pre-digitale con l’attuale epoca digitale. Nell’era pre-digitale, la diffusione delle informazioni era limitata e controllata principalmente dai media tradizionali. Tuttavia, l’avvento di Internet ha radicalmente cambiato questa situazione, consentendo un’ampia diffusione e accessibilità delle informazioni, con la possibilità di conservare il passato in un “quasi eterno presente”. Questo aumento esponenziale delle informazioni online presenta rischi per l’individuo, come la perdita della dimensione cronologica delle notizie e il potenziale deterioramento dell’immagine personale a causa dell’accesso alle informazioni passate. Viene, inoltre, proposto il “diritto all’oblio” come uno strumento di tutela per impedire che eventi passati influenzino negativamente l’immagine attuale di una persona. L’attenzione viene posta, altresì, all’evolversi del concetto di oblio nel tempo, l’impatto della transizione al mondo digitale su questo diritto e le norme europee, in particolare il Regolamento UE 2016/676, che riguardano la protezione dei dati personali e contribuiscono alla definizione del diritto all’oblio.

Il dibattito sulla regolamentazione di Internet e sul suo impatto sulla libertà di espressione e sulla privacy individuale è un argomento complesso e sfaccettato. L’avanzamento tecnologico nell’ambito delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT) ha portato a una rivoluzione nelle modalità di comunicazione e nell’esercizio dei diritti fondamentali, in particolare la libertà di espressione, garantita dalla Costituzione all’articolo 21. Questa trasformazione ha sollevato questioni importanti riguardo alla privacy e alla protezione dei dati personali, culminando nel concetto di “diritto all’oblio”, che permette alle persone di richiedere la rimozione di informazioni obsolete o irrilevanti su di loro da Internet.

Le sfide legislative nel bilanciare i diritti alla libertà di informazione e alla privacy sono notevoli, in particolare in un contesto globalizzato dove la diffusione delle informazioni è praticamente illimitata. Il tentativo di regolamentare Internet ha spesso suscitato controversie, percepite da alcuni come tentativi di limitare la libertà di espressione. Tuttavia, la mancanza di regolamentazione adeguata può portare a un’atmosfera di anarchia online, dove la responsabilità personale è facilmente elusa.

La decisione del CERN di rendere pubblica la tecnologia del World Wide Web nel 1993, ha segnato l’inizio di una nuova era di accessibilità all’informazione, ma ha anche introdotto il dilemma di come gestire una rete globale senza regole chiare. Questo ha portato all’emergere di “nuovi diritti” legati alla digitalizzazione della società, tra cui il diritto alla riservatezza e il diritto all’oblio, interpretati come estensioni dei diritti costituzionali esistenti. Questi diritti mirano a proteggere la dignità e la privacy degli individui nell’era digitale, consentendo loro di controllare come le loro informazioni personali vengono condivise e ricordate online.

In conclusione, la necessità di proteggere l’identità digitale delle persone e di garantire la loro privacy online è diventata una priorità nell’attuale società dell’informazione. Il diritto all’oblio emerge come uno strumento fondamentale per salvaguardare la reputazione e l’identità personale degli individui, affrontando le sfide poste dalla permanenza e dalla pervasività delle informazioni personali su Internet.

L’ implementazione del diritto all’oblio presenta sfide significative che richiedono un equilibrio attento tra la privacy individuale e la libertà di informazione. In un mondo sempre più interconnesso e digitale, il diritto all’oblio continua a essere un argomento di grande rilevanza e dibattito.

Nel panorama giuridico europeo, la protezione dei dati personali si è affermata come un diritto fondamentale, rispondendo alla necessità di bilanciare la privacy individuale con le libertà di informazione ed espressione in un contesto sempre più dominato dalla presenza digitale. La distinzione tra il diritto alla protezione dei dati personali e il diritto al rispetto della vita privata, come delineato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, segnala un’evoluzione da una concezione statica e negativa della privacy verso una tutela dinamica e proattiva dei dati, implicando un potere di intervento e controllo non solo da parte degli individui ma anche attraverso la supervisione di autorità indipendenti.

Questo cambiamento trova conferma nell’evoluzione legislativa, partendo dalla direttiva 95/46/CE, attraverso l’introduzione del Codice in materia di protezione dei dati personali in Italia (d.lgs. 196/2003), fino all’adozione del Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR – General Data Protection Regulation), che ha introdotto un quadro giuridico uniforme e direttamente applicabile in tutti gli Stati membri dell’Unione Europea. L’intento è quello di assicurare che il trattamento dei dati personali avvenga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali degli individui.

Tuttavia, il dibattito sul diritto all’oblio, specialmente in relazione al ruolo dei motori di ricerca e alla gestione delle informazioni online, ha sollevato questioni complesse sul bilanciamento dei diritti in gioco. La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso Google Spain ha segnato un punto di svolta, riconoscendo la responsabilità dei motori di ricerca nel trattamento dei dati personali e affermando il diritto degli individui di richiedere la rimozione di informazioni obsolete o irrilevanti dalla lista dei risultati di ricerca, ponendo le basi per una tutela più efficace della privacy digitale.

In contrapposizione, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha adottato un approccio differente, privilegiando la libertà di espressione e il diritto del pubblico all’informazione rispetto al diritto all’oblio, suggerendo una soluzione meno drastica attraverso l’aggiunta di precisazioni o aggiornamenti alle informazioni già pubblicate, piuttosto che la loro rimozione completa.

Queste dinamiche riflettono le tensioni intrinseche nel bilanciamento tra privacy e trasparenza nell’era digitale, evidenziando l’importanza di un dialogo continuo e di un approccio multilivello alla regolamentazione dei diritti in rete, che tenga conto della complessità e della fluidità del contesto digitale globale. La sfida per legislatori e giudici rimane quella di trovare equilibri dinamici che possano tutelare efficacemente i diritti degli individui senza soffocare le libertà fondamentali che sono alla base di una società democratica e informata.

Il “diritto all’oblio”, inteso come la prerogativa di essere dimenticati dalla collettività, si afferma nel contesto giuridico come una dimensione fondamentale della tutela della privacy e dell’identità personale nell’era digitale. Questo diritto consente agli individui di richiedere la deindicizzazione e, in alcuni casi, la cancellazione di dati personali dai motori di ricerca quando tali informazioni, un tempo pertinenti o di interesse pubblico, diventano obsolete o irrilevanti, evitando così una perpetua esposizione mediatica che potrebbe danneggiare la reputazione personale.

Viene in tal modo introdotta la possibilità per ogni individuo di richiedere la cancellazione di informazioni che, con il trascorrere del tempo, hanno perso rilevanza o interesse pubblico. L’attuazione di tale diritto si basa sulla valutazione della persistente rilevanza delle informazioni, tenendo conto dell’evoluzione del contesto sociale e informativo.

La giurisprudenza civile stabilisce criteri specifici per la pubblicazione di notizie che potrebbero compromettere l’onore e la reputazione, richiedendo la verità oggettiva della notizia, l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto e la correttezza formale dell’esposizione. Con il tempo, è emersa una nuova sensibilità giuridica che limita il diritto di cronaca alla luce dell’attualità delle notizie, precludendo la diffusione di informazioni non più rilevanti socialmente o d’interesse pubblico.

Il diritto all’oblio si distingue per la sua funzione di tutela dell’identità personale di fronte all’impatto potenzialmente illimitato e duraturo delle informazioni digitali. La giurisprudenza civile enfatizza la necessità di proteggere la proiezione sociale dell’identità dell’individuo, assicurando che dati personali obsoleti o non più pertinenti non siano ulteriormente diffusi, in considerazione dell’evoluzione della reputazione e dell’identità personale nel tempo.

Questa concezione del diritto all’oblio viene riconosciuta anche dalla Corte Costituzionale, che ha stabilito la possibilità di cancellare dal casellario giudiziale le iscrizioni di responsabili di illeciti minori dopo un periodo adeguato senza ulteriori reati, riaffermando l’importanza del bilanciamento tra il diritto all’oblio e altre esigenze di carattere pubblico.

La Suprema Corte ribadisce che il diritto all’oblio non si riduce alla mera cancellazione di notizie dannose per la reputazione, ma implica la capacità di aggiornare o rimuovere informazioni che, con il passare del tempo, diventano lesive per l’identità personale dell’interessato. Questo diritto si estende alla protezione contro la diffusione non necessaria di notizie passate che non presentano più un interesse pubblico o una rilevanza sociale, stabilendo un equilibrio tra il diritto di cronaca e la libertà di espressione, da un lato, e la tutela della privacy e dell’identità personale, dall’altro.

L’approfondimento mira a delineare come questi diritti contribuiscano a consolidare il principio di autodeterminazione informativa, permettendo all’individuo un controllo più stringente sulle proprie informazioni personali.

Il diritto alla cancellazione, articolato nell’articolo 17 del GDPR, offre all’interessato la facoltà di richiedere la rimozione dei dati personali che lo riguardano, sotto specifiche condizioni. Queste includono scenari in cui i dati non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti, il ritiro del consenso su cui si basa il trattamento, o il rilevamento di trattamento illecito dei dati. La normativa chiarisce che tale diritto non è assoluto ma condizionato dalla presenza di determinate circostanze che legittimano la richiesta di cancellazione, al fine di bilanciare altri interessi fondamentali, come la libertà di espressione e il diritto all’informazione. La cancellazione dei dati non può avvenire automaticamente se prevale un interesse pubblico legittimo o se i dati sono necessari per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria.

Oltre alla distruzione fisica dei dati, il regolamento contempla alternative quali l’anonimizzazione, intendendo qualsiasi processo che renda i dati non riconducibili all’identità del soggetto interessato. Tale approccio differisce dalla pseudonimizzazione, in quanto quest’ultima non preclude la possibilità di futura reidentificazione. Pertanto, l’efficacia del diritto alla cancellazione si manifesta attraverso la irreversibilità della separazione tra i dati e l’identità dell’individuo, un aspetto fondamentale per la tutela della privacy. La normativa impone al titolare del trattamento di valutare le richieste di cancellazione nel rispetto del principio di proporzionalità, tenendo conto dei costi, delle tecnologie disponibili e della propria organizzazione. Qualora i dati oggetto della richiesta di cancellazione siano stati condivisi con terzi, il titolare è tenuto a informare tali entità della necessità di adottare misure analoghe a quelle intraprese direttamente. 

Nel complesso giurisprudenziale e normativo vanno ricordate:

  • Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 13 maggio 2014. Google Spain SL e Google Inc. contro Agencia Española de Protección de Datos (AEPD) e Mario Costeja González. Causa C131/12. “Il gestore di un motore di ricerca su Internet è responsabile del trattamento da esso effettuato dei dati personali che appaiono su pagine web pubblicate da terzi. Così, nel caso in cui, a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, l’elenco di risultati mostra un link verso una pagina web che contiene informazioni sulla persona in questione, questa può rivolgersi direttamente al gestore oppure, qualora questi non dia seguito alla sua domanda, adire le autorità competenti per ottenere, in presenza di determinate.” La Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso Google Spain ha posto le basi per il riconoscimento del diritto all’oblio nel contesto dei motori di ricerca. La Corte ha stabilito che i motori di ricerca hanno la responsabilità di rimuovere i link a informazioni obsolete o non più rilevanti, equilibrando il diritto alla privacy degli individui con il diritto del pubblico all’accesso alle informazioni. Questa decisione ha evidenziato il ruolo dei motori di ricerca nella gestione delle informazioni personali e ha sottolineato la necessità di valutare attentamente le richieste di deindicizzazione in base all’interesse pubblico e alla rilevanza delle informazioni.
  • Sentenza della Corte di giustizia nella causa C-136/17 (24 settembre 2019)
    GC e a./Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL). “Il divieto di trattare determinate categorie di dati personali sensibili si applica anche ai gestori di motori di ricerca. Nell’ambito di una domanda di deindicizzazione, dev’essere effettuato un bilanciamento tra i diritti fondamentali del richiedente la deindicizzazione e quelli degli utenti di Internet potenzialmente interessati a tali informazioni”.
  • Sentenza nella causa C-507/17 (24 settembre 2019). Google LLC, succeduta alla Google Inc./ Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL)“Il gestore di un motore di ricerca non è tenuto a effettuare la deindicizzazione in tutte le versioni del suo motore di ricerca. È tuttavia tenuto ad effettuarla nelle versioni di tale motore di ricerca corrispondenti a tutti gli Stati membri e ad attuare misure che scoraggino gli utenti di Internet dall’avere accesso, a partire da uno degli Stati membri, ai link di cui trattasi contenuti nelle versioni extra UE di detto motore”.
  • La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea nella causa C-460/20, relativa al caso Google (Deindicizzazione di contenuti asseritamente inesatti), rappresenta un importante punto di riferimento nell’ambito del diritto alla protezione dei dati personali, in particolare per quanto concerne il “diritto all’oblio”). Il contesto della sentenza riguarda la richiesta da parte di due dirigenti di un gruppo di società di investimenti affinché Google deindicizzasse risultati di ricerca collegati a loro nomi, i quali contenevano link verso articoli criticando il loro modello di investimento con affermazioni ritenute inesatte, e l’eliminazione delle loro fotografie sotto forma di miniature da risultati di ricerca di immagini. La Corte di giustizia sottolinea che il diritto alla protezione dei dati personali non è assoluto ma deve essere bilanciato con altri diritti fondamentali, come la libertà di informazione, seguendo il principio di proporzionalità. La normativa europea prevede eccezioni al diritto alla cancellazione quando il trattamento dei dati è necessario per l’esercizio del diritto alla libertà di informazione. Nella sua decisione, la Corte stabilisce che i diritti alla protezione della vita privata e dei dati personali prevalgono generalmente sull’interesse degli utenti di Internet all’accesso alle informazioni, ma questo equilibrio può variare a seconda delle circostanze del caso, incluse la natura e la sensibilità delle informazioni e l’interesse pubblico ad esse associato. Tuttavia, quando le informazioni indicizzate si rivelano manifestamente inesatte, o almeno una parte di esse di non minore importanza, il diritto alla libertà d’espressione e di informazione non può essere considerato per giustificare il loro mantenimento nell’indice del motore di ricerca. Per quanto riguarda l’obbligo di prova in capo a chi richiede la deindicizzazione, la Corte precisa che spetta a questa persona dimostrare l’inesattezza manifesta delle informazioni, fornendo prove ragionevolmente ricercabili, senza che ciò comporti un onere eccessivo. Non è necessario, almeno nella fase precontenziosa, fornire una decisione giudiziaria contro l’editore del sito. Il gestore del motore di ricerca, ricevuta una richiesta di deindicizzazione supportata da elementi di prova pertinenti e sufficienti, è tenuto ad accoglierla, soprattutto se esiste una decisione giudiziaria che attesta l’inesattezza delle informazioni. In assenza di manifesta inesattezza evidente dagli elementi forniti, e senza una decisione giudiziaria che lo confermi, il gestore del motore di ricerca non è obbligato ad accogliere la richiesta, ma il richiedente può rivolgersi alle autorità competenti per ulteriori verifiche. Questa sentenza impone ai gestori dei motori di ricerca di adottare un approccio più attento e ponderato nell’esaminare le richieste di deindicizzazione, tenendo conto dei diritti fondamentali coinvolti e delle prove fornite dai richiedenti.
  • In particolare riferimento al nostro Paese, va evidenziato il d.lgs. 150 del 2022, noto come Riforma Cartabia, che ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano l’articolo 64-ter riguardante il “diritto all’oblio degli imputati e delle persone sottoposte a indagini” nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale. Questa novità normativa mira a bilanciare il rapporto tra processo penale, media, e diritto all’oblio, fornendo strumenti legali per limitare la diffusione di informazioni che possano ledere la reputazione di individui già prosciolti o assolti. L’articolo 64-ter dispone che le persone a cui è stata pronunciata una sentenza di proscioglimento, non luogo a procedere, o un decreto di archiviazione, hanno il diritto di richiedere la deindicizzazione (rimozione da risultati di ricerca internet) o la preclusione dell’indicizzazione dei dati personali citati nei provvedimenti giudiziari. Questo è un passo avanti significativo nel riconoscere e tutelare il diritto all’oblio digitale di individui ingiustamente coinvolti in procedimenti penali, offrendo un rimedio legale contro la permanente disponibilità e accessibilità di informazioni potenzialmente dannose su internet. L’introduzione di questo articolo risponde all’esigenza di proteggere la dignità e la reputazione delle persone nell’era digitale, dove le informazioni su internet hanno una longevità e una diffusione senza precedenti. La normativa cerca di armonizzare le disposizioni italiane con i principi del diritto all’oblio sanciti a livello europeo, in particolare con il regolamento GDPR che prevede il diritto alla cancellazione dei dati personali. Nonostante l’innovazione legislativa, emergono alcune criticità nella sua applicazione pratica, come la definizione dei criteri per l’accoglimento delle richieste di deindicizzazione e la modalità con cui tali richieste sono esaminate e attuate dai motori di ricerca. Inoltre, vi sono dubbi sull’effettiva capacità della norma di assicurare una tutela efficace dell’oblio digitale, considerando le sfide tecniche e giuridiche legate alla gestione delle informazioni online e le implicazioni per la libertà di espressione e il diritto all’informazione. L’articolo 64-ter rappresenta un tentativo significativo di adeguare il diritto italiano alle sfide poste dalla digitalizzazione della società e dall’interazione tra privacy, reputazione online e diritti delle persone coinvolte in procedimenti giudiziari. Tuttavia, la sua efficacia pratica dipenderà dalla capacità di risolvere le questioni operative e interpretative che ne derivano, necessitando possibilmente di futuri aggiustamenti legislativi o interpretativi per garantire una protezione effettiva del diritto all’oblio.

Nel contesto dell’era digitale, la questione dell’oblio e della memoria collettiva assume connotazioni inedite e complesse. La riflessione si apre con l’interrogativo su quale forma assuma la vita in un’epoca dove “Google ricorda sempre”, evidenziando i pericoli emergenti legati alla rete, un dominio che funge da deposito per un’implacabile memoria collettiva. La digitalizzazione ha portato a una situazione dove ogni aspetto della vita umana viene raccolto, cristallizzato e reso eternamente accessibile nell’ “inconscio digitale”, trasformando la memoria, un tempo intesa come un accumulo di esperienze, in un peso da cui liberarsi.

Il desiderio di oblio, quindi, non nasce tanto dalla volontà di eludere uno sguardo indesiderato, quanto dalla necessità di ritirarsi in una zona d’ombra digitale, dove le tracce personali possono essere “cancellate”. Questo bisogno si è intensificato con l’avvento di Internet e delle nuove tecnologie, che hanno reso ogni traccia della vita umana permanentemente accessibile, ponendo le basi per il diritto all’oblio. Questo diritto, emergente tra gli anni ‘80 e ‘90, oscilla tra il rispetto dell’identità della persona e il diritto alla riservatezza, assumendo una configurazione autonoma grazie all’espansione dei cosiddetti diritti della personalità.

L’evoluzione giuridica di tale diritto, è stato riconosciuto e definito attraverso un processo di reinterpretazione dell’art. 2 della Costituzione italiana, che considera la tutela della personalità umana in tutte le sue espressioni, anche quelle non ancora normativamente tipizzate. Questo approccio ha portato al riconoscimento giuridico di situazioni esistenziali quali il diritto alla riservatezza e il diritto all’identità personale, distinguendoli per la prima volta e ponendo le basi per l’emergere del diritto all’oblio.

Il diritto all’oblio, pertanto, è stato inizialmente inteso come la pretesa di non vedere rievocati fatti già resi di pubblico dominio, con l’obiettivo di proteggere l’individuo da una nuova notorietà indesiderata. La giurisprudenza di legittimità ha successivamente qualificato l’oblio come l’interesse a non restare indefinitamente esposto ai danni ulteriori arrecati alla reputazione dall’incessante pubblicazione di notizie passate.

Nel bilanciamento tra diritto all’oblio e diritto di cronaca, emerge la complessità di armonizzare l’interesse pubblico all’informazione con il diritto individuale alla dimenticanza. La prevalenza di uno sull’altro dipende dalla rilevanza attuale della notizia e dall’esistenza di un interesse pubblico nella sua rievocazione.

Nell’era della digitalizzazione, la nozione di privacy subisce una trasformazione radicale, evidenziando come la dimensione virtuale influenzi profondamente il concetto di spazio personale. È evidente come la rivoluzione elettronica e tecnologica abbia espanso lo schermo della vita personale oltre il personal computer, immergendola nell’intero spazio della rete. Questo cambio di paradigma solleva interrogativi significativi sulla possibile perdita di diritti in un contesto dove la privacy tradizionale, intesa come “diritto a essere lasciato solo”, non sembra più adeguata a tutelare l’individuo contro intrusioni non desiderate.

La trasformazione della “sfera privata” in un luogo di scambio e condivisione di dati personali richiede un’evoluzione verso la “protezione dei dati”, concetto elaborato nell’ambito europeo per rispondere alla necessità di una disciplina uniforme che regoli i nuovi spazi sconfinati e mobili della rete. Il contesto digitale, caratterizzato da un pluralismo di fonti e una molteplicità di giurisdizioni, presenta sfide significative nella risoluzione delle controversie e nel bilanciamento tra diritti personali e la libertà di informazione. La peculiarità dei diritti in rete, che non ammettono una gerarchizzazione a causa della natura intrinsecamente egualitaria della rete, richiede un approccio “multilevel” per la loro regolamentazione.

In questo scenario, il diritto all’oblio emerge come una necessità di governare la propria memoria digitale, offrendo a ciascuno la possibilità di reinventarsi e costruire una nuova identità personale, liberandosi dalle “gabbie” imposte da una memoria onnipresente e totalizzante. Tuttavia, la regolamentazione dei diritti in un dominio apparentemente anarchico come il web solleva interrogativi fondamentali sui meccanismi di governance, sul ruolo degli Stati e sulla capacità delle leggi di adattarsi a una realtà in continuo mutamento.

Il dibattito sulla regolamentazione del ciberspazio, evidenziato dalla Dichiarazione d’indipendenza del ciberspazio, mostra la tensione tra la necessità di tutelare i diritti umani in un contesto digitale e la resistenza a un controllo centralizzato. Le questioni su chi debba essere il legislatore e quale giudice debba applicare i diritti proclamati riflettono le sfide poste dalla nascita di nuovi diritti umani nell’era digitale, sottolineando l’urgenza di trovare soluzioni innovative per garantire la protezione della privacy e altri diritti fondamentali nell’ambito virtuale. La risposta a queste sfide passa attraverso un dialogo inclusivo tra diversi attori a vari livelli, che possano concorrere alla creazione di un quadro normativo adatto a regolare la complessità del ciberspazio, come dimostrato dagli sforzi dell’Unione Europea in materia di protezione dei dati.

L’articolo 17 del GDPR segna un punto di svolta nella protezione dei dati personali nell’Unione Europea, introducendo il “diritto alla cancellazione” dei dati personali, comunemente noto come “diritto all’oblio”. Questo diritto permette agli individui di richiedere la cancellazione dei propri dati personali dal titolare del trattamento senza ingiustificato ritardo, e impone al titolare del trattamento l’obbligo di cancellare tali dati quando sussistono specifiche condizioni.

Nonostante il termine “diritto all’oblio” non sia esplicitamente definito nel GDPR, l’articolo 17 stabilisce chiaramente i presupposti per l’esercizio di questo diritto, tra cui la non necessità dei dati per le finalità originali di raccolta o trattamento, la revoca del consenso da parte dell’interessato, e il trattamento illecito dei dati. Tuttavia, il regolamento ammette eccezioni al diritto alla cancellazione, ad esempio quando il trattamento è necessario per l’esercizio della libertà di espressione e di informazione, per l’adempimento di un obbligo legale, o per motivi di interesse pubblico.

La giurisprudenza e la dottrina hanno sollevato criticità riguardo all’assenza di una definizione precisa del diritto all’oblio e alla discrezionalità affidata alle corti e alle autorità nazionali nel bilanciamento tra i diritti dell’interessato e gli altri interessi in gioco. Inoltre, l’articolo 17 viene interpretato come uno tra i possibili rimedi per realizzare l’oblio, evidenziando come esistano diverse declinazioni di questo diritto, come la deindicizzazione, l’anonimizzazione dei dati, e la contestualizzazione delle informazioni non più attuali.

La giurisprudenza italiana ha affrontato questioni legate al diritto all’oblio, bilanciando il diritto di cronaca e il diritto alla privacy. Due casi significativi riguardano un noto cantautore italiano e una vicenda di uxoricidio, entrambi esemplificativi del dibattito sul diritto all’oblio rispetto alla libertà di espressione e al diritto di cronaca. La Suprema Corte di Cassazione ha delineato criteri per il bilanciamento tra questi diritti, sottolineando che la pubblicazione di informazioni relative a persone a distanza di tempo dai fatti deve rispettare specifici presupposti per non violare il diritto all’oblio.

La decisione delle Sezioni Unite del 2019 rappresenta un momento storico nella giurisprudenza italiana, identificando tre differenti declinazioni del diritto all’oblio e stabilendo che la rievocazione di fatti storici deve avvenire in forma anonima, a meno che non si tratti di figure pubbliche. Questa sentenza evidenzia l’importanza del diritto all’oblio nel contesto digitale, riconoscendo il diritto degli individui a non essere eternamente legati a informazioni del passato, favorendo così la possibilità di reinserimento sociale e la protezione della dignità personale.

La decisione del settembre 2019 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul caso Google rappresenta un importante punto di riferimento nell’interpretazione e applicazione del diritto alla protezione dei dati personali, in particolare in relazione all’articolo 17 del GDPR. Questa sentenza ha affrontato questioni chiave riguardanti l’ammissibilità dell’esercizio del diritto alla deindicizzazione e la sua possibile estensione territoriale oltre i confini dell’Unione Europea.

La Corte è stata chiamata a risolvere due questioni principali: da un lato, il bilanciamento tra il diritto alla protezione dei dati personali e il diritto all’informazione dell’utente di Internet; dall’altro, la determinazione della portata territoriale del diritto alla deindicizzazione. Con particolare attenzione alla prima questione, è stato riconosciuto che, mentre l’Internet agisce come veicolo per la cura e l’aggiornamento dei dati personali attraverso i siti sorgente e la loro successiva indicizzazione e memorizzazione da parte dei motori di ricerca, l’articolo 17 del GDPR stabilisce le condizioni per cui un individuo può richiedere la cancellazione dei propri dati personali. In questo contesto, è emersa l’importanza non solo del diritto a essere informati ma anche del diritto di informare, sottolineando la necessità di proteggere l’informazione in tutte le sue forme per assicurare il pluralismo informativo e il diritto di ogni utente ad essere adeguatamente informato.

Riguardo alla seconda questione, relativa alla portata territoriale del diritto all’oblio, la Corte ha stabilito che il gestore di un motore di ricerca è tenuto a rimuovere i link dalle versioni del motore di ricerca corrispondenti a tutti gli Stati membri dell’UE, limitando così l’obbligo di deindicizzazione ai confini territoriali dell’Unione. Questa decisione riflette la complessità di estendere la protezione dei dati personali e il diritto alla cancellazione a livello globale, dato che molti paesi al di fuori dell’UE non riconoscono il diritto alla protezione dei dati personali o non lo regolano in modo simile. La sentenza del 2019 chiarisce dunque che la deindicizzazione, sebbene rappresenti un importante strumento di tutela dei diritti degli individui nell’ambito digitale, ha un ambito di applicazione geograficamente limitato all’UE. Questo implica che, nonostante le rigorose protezioni offerte all’interno dell’Unione, la capacità di garantire il diritto alla cancellazione dei dati su scala globale rimane una sfida significativa. La decisione sottolinea l’importanza di sviluppare meccanismi e strategie, come il blocco geografico, che permettano di adempiere efficacemente agli obblighi di deindicizzazione nel rispetto dei principi stabiliti dal GDPR, pur riconoscendo le limitazioni imposte dal contesto normativo e giuridico internazionale.

Negli ultimi anni si stanno sviluppando tuttavia altre forme di tutela, le quali demandano l’intera attività di raccolta di informazioni, nonché la fase decisionale, direttamente ai provider o ai soggetti che gestiscono il motore di ricerca. Nei paragrafi successivi saranno analizzati tali strumenti. Sarà altresì preso in considerazione il social network Facebook, il quale, secondo gli analisti anche alla luce della relativa diffusione nel medio e lungo periodo avrebbe l’intenzione di contrapporsi ai motori di ricerca (http://search.fb.com/), integrando un motore di ricerca interno e sfruttando i contenuti dei propri utenti ed avvalendosi di una standardizzazione dei dati particolarmente elevata. Facebook appare certamente così appartenere alla zona grigia della sentenza C-131, in quanto allo stato attuale appare difficile che esso sia considerato come un vero e proprio motore di ricerca, ma inizia già ora a svolgere, in tutto o in parte, la funzione tecnologica di ricerca delle informazioni, seppure in una rete ristretta.

La tematica della deindicizzazione e del diritto all’oblio su internet ha acquisito rilevanza crescente nell’era digitale, particolarmente con l’introduzione di meccanismi che permettono agli individui di richiedere la rimozione di contenuti dai motori di ricerca come Google. Questo fenomeno, evidenziato dalla rapida escalation delle richieste di rimozione subito dopo la disponibilità di un modulo online dedicato, mette in luce le sfide e le complessità intrinseche alla gestione del diritto alla privacy nell’ambiente online.

Google law: un form per l’esercizio dell’oblio

    Google, in risposta alle esigenze normative e sociali, ha introdotto un modulo web[1] che consente agli individui di esercitare il diritto all’oblio, chiedendo la rimozione di specifici contenuti dalle pagine dei risultati di ricerca (SERP[2]). L’iter procedurale, nonostante la sua apparente semplicità, nasconde diverse complessità sia operative che etiche. La necessità di allegare una scansione di un documento d’identità, pur consentendo l’anonimizzazione di alcune parti, solleva questioni relative alla sicurezza dei dati personali e alla loro gestione da parte di un ente privato come Google.

    La gestione delle richieste, affidata inizialmente al personale junior e poi, in casi più complessi, a consulenti senior e avvocati, denota un processo decisionale strutturato e mirato a valutare l’appropriatezza delle richieste di rimozione. Questo processo si articola in diverse fasi che includono la verifica dell’identità del richiedente, il collegamento con un Paese europeo, la pertinenza delle informazioni con il nome del richiedente e l’interesse pubblico delle informazioni richieste per la deindicizzazione.

    Una delle criticità maggiori del sistema di deindicizzazione risiede nella sua applicabilità e conformità alle normative sui diritti alla privacy, in particolare rispetto al contesto europeo. La procedura di Google, pur essendo un passo verso il riconoscimento del diritto all’oblio, sembra limitare la sua applicazione ai cittadini o residenti europei, non allineandosi completamente alle disposizioni del codice della privacy italiano che estende la tutela dei dati personali a chiunque, indipendentemente dalla cittadinanza, purché il trattamento dei dati avvenga sul territorio italiano.

    Inoltre, l’efficacia della deindicizzazione si limita alla rimozione dei contenuti basati su specifiche parole chiave, come il nome dell’interessato, senza impedire la reperibilità delle informazioni attraverso altre vie di ricerca. Questo limita sostanzialmente il diritto all’oblio, riducendolo a una mera deindicizzazione nominativa che non cancella la presenza online delle informazioni, ma ne riduce solo parzialmente l’accessibilità.

    La gestione del diritto all’oblio da parte di Google pone in evidenza la necessità di un approccio più olistico e conforme alle diverse normative nazionali ed europee. Un sistema efficace di deindicizzazione dovrebbe non solo considerare le specificità legali di ogni Paese ma anche garantire una reale protezione del diritto alla privacy, estendendo la possibilità di rimozione a tutte le informazioni irrilevanti o obsolete, indipendentemente dalle parole chiave utilizzate nella ricerca.

    In conclusione, mentre la procedura attuale rappresenta un importante passo avanti nella tutela della privacy online, rimangono significative sfide e opportunità per migliorare l’efficacia e la conformità del diritto all’oblio con le diverse normative sulla protezione dei dati. Sarà fondamentale continuare a monitorare e valutare l’evoluzione di queste pratiche per garantire un equilibrio tra il diritto alla privacy degli individui e l’interesse pubblico all’accesso alle informazioni.

    Bing

    Bing, il motore di ricerca di Microsoft Corporation, ha reso disponibile un proprio form[3] articolato in 4 parti, per richiedere la deindicizzazione dei contenuti.

    Il modo in cui Bing gestisce le richieste di deindicizzazione offre spunti peculiari per un’analisi approfondita, soprattutto se confrontato con Google. Il form di richiesta di deindicizzazione proposto da Bing si distingue per il suo approccio analitico, richiedendo agli utenti di specificare non solo il contenuto da rimuovere ma anche il contesto e la posizione dell’interessato nella propria comunità. Questo dettaglio assume particolare rilevanza in quanto sottolinea l’importanza dell’impatto sociale e comunitario nell’analisi delle richieste, offrendo una tutela più affine alle dinamiche sociali reali.

    Differenze significative emergono anche nella territorialità applicata alla procedura di deindicizzazione, con Google che estende la protezione non solo ai residenti ma anche agli individui domiciliati in Europa. Questa estensione rappresenta una sensibilità più ampia verso il diritto alla privacy, andando oltre le mere distinzioni legali tra residenza e domicilio.

    Una peculiarità di Bing è la considerazione dello pseudonimo, allineandosi così alle tutele previste dal codice della privacy e dal diritto civile italiano. Questo aspetto è fondamentale in quanto riconosce l’importanza dell’identità digitale e la necessità di proteggerla con le stesse garanzie dell’identità anagrafica.

    Per quanto riguarda i minori, Bing adotta una posizione progressista permettendo loro di inviare autonomamente il modulo di richiesta di deindicizzazione. Sebbene questa scelta rispecchi un riconoscimento del diritto al libero sviluppo della personalità del minore, solleva questioni delicate relative alla capacità dei minori di comprendere appieno le implicazioni del consenso al trattamento dei dati e dell’esercizio del diritto alla privacy. La decisione di Bing di consentire tale autonomia merita quindi un’analisi critica, considerando le diverse interpretazioni e le possibili implicazioni legali e sociali.

    Inoltre, Bing esige che le richieste di deindicizzazione siano accompagnate da una descrizione dettagliata del contenuto e dalle motivazioni che sottendono alla richiesta. Tale processo riflette un tentativo di bilanciare il diritto all’oblio con la libertà di espressione e l’interesse pubblico all’accesso alle informazioni. Tuttavia, la categorizzazione delle ragioni per la richiesta di rimozione (informazioni inesatte, false, incomplete, inadeguate, non aggiornate, non pertinenti, eccessive o improprie) potrebbe introdurre ambiguità, in quanto confonde il diritto all’oblio con il diritto all’aggiornamento dei dati personali.

    Yahoo!

    Yahoo! ha predisposto un apposito form “Richieste di Blocco dei risultati della ricerca in Yahoo Ricerca:Risorse per i Residenti in Europa[4]. In particolare il motore di ricerca specifica che la Corte di giustizia dell’Unione europea ha decretato che gli utenti residenti in Europa possono richiedere che URL specifici vengano deindicizzati rispetto a ricerche specifiche del loro nome, nel caso in cui la pagina contenga dati personali imprecisi, inadeguati, non più pertinenti o eccessivi, relativamente ai fini per i quali erano stati raccolti o elaborati. Gli utenti di Yahoo residenti in Europa possono utilizzare questo modulo per richiedere che un URL venga bloccato per una pagina, associata al loro nome, che rispetti questi criteri. Si ricorda che qualsiasi blocco verrà garantito solamente riguardo alla ricerca del nome specifico dell’utente in questione.

    Libero search (Arianna) e gli altri motori italiani

    Nel panorama dei motori di ricerca italiani, Arianna (Libero.it) emerge come un caso emblematico. Originariamente lanciato nel 1996 da ricercatori dell’Università di Pisa, Arianna ha modificato la sua strategia nel 2008 adottando i risultati di ricerca forniti da Google Inc., come indicato dalla dicitura “enhanced by Google” sul proprio box di ricerca. Questa scelta rispecchia un adattamento alle branding guidelines di Google, ma solleva questioni riguardanti l’autonomia e la gestione dei dati personali.

    Una caratteristica distintiva di Arianna è l’offerta limitata alle funzioni di “ricerca correlata” ed “avanzata”, che mirano a migliorare l’esperienza dell’utente senza stravolgere la SERP (Search Engine Results Page) fornita da Google. Ciò solleva interrogativi sull’esercizio del diritto all’oblio da parte degli utenti italiani, dato che non sono presenti moduli specifici per la deindicizzazione dei contenuti o indicazioni chiare su come la rimozione dei dati da Google possa influire sui risultati di Arianna.

    Contrastando con queste realtà, Istella[5] rappresenta un’iniziativa nata dalla collaborazione tra Tiscali, l’Università degli Studi di Pisa e il CNR. Lanciato il 19 marzo 2013, Istella si propone non come un diretto concorrente dei giganti della ricerca online, ma come un’alternativa focalizzata su fonti non indicizzate da altri motori. Nonostante l’approccio innovativo e la non conservazione dei dati degli utenti, anche Istella non fornisce indicazioni chiare sull’esercizio del diritto all’oblio. Rimane presente unicamente una informativa privacy[6] che non contiene alcuna informazione in merito all’esercizio di questo specifico diritto.

    La questione del diritto all’oblio nei motori di ricerca italiani riflette la complessità delle interazioni tra normative sulla privacy, gestione dei dati personali e le tecnologie sottostanti. Mentre Arianna e Excite Italia mostrano le sfide poste dall’integrazione con tecnologie esterne, Istella offre una visione alternativa che tuttavia non chiarisce pienamente come viene gestito il diritto all’oblio. Questo panorama sottolinea la necessità di un quadro normativo e di pratiche aziendali che garantiscano trasparenza e controllo effettivo agli utenti sui loro dati personali nel contesto digitale.

    Facebook (Meta) e gli altri social network

    L’intersezione tra il diritto all’oblio e le piattaforme di social media, come Facebook, Twitter e LinkedIn, pone sfide uniche e complesse, che riflettono le tensioni tra privacy individuale, libertà di espressione e i confini della regolamentazione legale. La gestione dei dati personali e l’applicabilità del diritto all’oblio su queste piattaforme diventa particolarmente problematica alla luce delle diverse interpretazioni normative e delle politiche aziendali.

    Le piattaforme social come Facebook, Twitter e LinkedIn hanno trasformato il modo in cui interagiamo, comunicando e condividendo informazioni su scala globale. Tuttavia, la persistenza digitale delle informazioni condivise online solleva questioni rilevanti riguardo al diritto all’oblio, un principio che mira a consentire agli individui di richiedere la rimozione di informazioni obsolete o irrilevanti su di loro da risultati di ricerca o database online.

    Facebook, in particolare, ha affrontato critiche e sfide legali in Europa per il suo approccio alla privacy e alla gestione dei dati personali. Il conflitto con il Garante della privacy tedesco riguardante l’estensione del diritto all’oblio ai contenuti presenti sul social network sottolinea la difficoltà di definire i confini di applicabilità di questo diritto alle piattaforme di social media. La posizione di Facebook, basata sulla conformità alla normativa irlandese, riflette una strategia di minimizzazione delle responsabilità legali, ma solleva interrogativi sulla sua adeguazione alle esigenze di privacy degli utenti europei.

    La legislazione italiana, attraverso l’intervento del Garante Privacy, ha tuttavia evidenziato come la presenza di una struttura organizzativa stabile all’interno del paese (Facebook Italy s.r.l.) imponga l’applicazione del diritto nazionale in materia di protezione dei dati, confermando così l’applicabilità del diritto all’oblio anche ai giganti del web con base in altri paesi dell’UE.

    Analogamente, Twitter e LinkedIn presentano le loro politiche in materia di gestione dei dati personali, ma con una meno evidente attenzione al diritto all’oblio. Twitter, ad esempio, ha adottato misure per impedire l’eliminazione dei tweet di figure pubbliche, sottolineando la tensione tra il diritto alla privacy e l’interesse pubblico; tuttavia, il diritto all’oblio su Twitter è meno evidente poiché la piattaforma è più orientata verso il presente e la condivisione immediata di informazioni. LinkedIn, d’altra parte, offre un’informativa sulla privacy[7] dettagliata ma non fornisce indicazioni chiare sulla possibilità di esercitare il diritto all’oblio.

    La questione del diritto all’oblio nei confronti dei social network evidenzia la complessità di applicare principi giuridici stabiliti a realtà tecnologiche e sociali in continua evoluzione. Mentre le piattaforme social si sforzano di bilanciare la protezione della privacy con la libertà di espressione e le esigenze commerciali, la definizione e l’attuazione del diritto all’oblio rimangono una sfida significativa.

    Queste dinamiche richiedono un dialogo continuo tra legislatori, piattaforme social e società civile per sviluppare approcci che rispettino i diritti degli individui alla privacy e all’oblio digitale, pur garantendo il libero flusso di informazioni e la trasparenza. In ultima analisi, il diritto all’oblio nei social media solleva questioni fondamentali sulla nostra identità digitale e su come vogliamo che il nostro passato online influenzi il nostro futuro.

    In ogni caso, Facebook assicura la possibilità di rimuovere contenuti che non rispettano la dichiarazione dei diritti e delle responsabilità di Facebook[8][9] e rinvia alla normativa sull’utilizzo dei dati[10]. È prevista la possibilità di eliminare l’account[11] in qualsiasi momento o, alternativamente, di disattivare l’account in maniera temporanea; questa opzione attribuisce la possibilità di non essere più visibile a sé stessi ed a terzi, ma di poter disporre nuovamente dell’intero complesso di informazioni, che saranno comunque nuovamente accessibili[12]. È previsto uno specifico modulo mediante il quale è possibile segnalare possibili violazioni della propria privacy[13].

    Su Facebook, il diritto all’oblio si applica principalmente alle informazioni pubblicate dagli utenti stessi o da terze parti che possono influire sulla loro reputazione, vita personale o professionale. Questo può includere foto, post, commenti o altre informazioni che potrebbero non essere più rilevanti o che possono arrecare danno alla persona nel tempo[14].       

    … ma in pratica?

    Da un punto di vista pratico, bisogna evidenziare che le iniziative proposte dai principali motori di ricerca si sono rilevate nel tempo solo soluzioni di mera facciata più che di sostanza, in quanto:

    • de-indicizzazione” non significa “cancellazione”, cioè Google non potrà mai cancellare la pagina incriminata, ma farà solo in modo (o meglio, promette di fare in modo) di eliminare la possibilità che tale pagina figuri tra i risultati delle ricerche. In pratica, Google de-indicizzando il contenuto fa sì che lo stesso non possa essere “pescato” da chi scrive il nome e cognome dell’interessato sul motore (ma coi limiti, peraltro, che a breve vedremo). È ovvio, invece, che solo la totale cancellazione della pagina può garantire la certezza che l’informazione non venga mai più letta. Il fatto che la stessa continui a esistere nel web non esclude, infatti, la possibilità che essa venga trovata in modi alternativi rispetto alla ricerca su Google: per esempio, attraverso un link presente su un social network o su un’altra pagina di un diverso sito contenente notizia affine e mai de-indicizzata; una ricerca diretta all’interno dell’archivio del giornale online (per esempio, ricercando nel “motore di ricerca interno” al Corriere, Repubblica, ecc.);
    • vi è una possibilità di “ripescaggio” della pagina al variare nel tempo degli algoritmi di indicizzazione. Nella causa davanti alla Corte di Giustizia, Google aveva fatto notare la possibilità che, una volta deindicizzata la pagina incriminata, la stessa potrebbe, in teoria, essere sempre ripescata in un momento successivo, dallo stesso “crawler” automatico di Google. Anche in questo caso, se la pagina continua a esistere, nulla toglie che, in futuro, possa rispuntare grazie all’algoritmo di BigG che, ogni giorno, scandaglia le notizie presenti in Rete;
    • la sentenza era vincolante di fatto solo nei confronti di Google. Pertanto, ammesso che la notizia venga cancellata da Google, la stessa sarà agevolmente reperibile attraverso altri motori di ricerca (Bing, Yahoo, Virgilio, Tiscali, ecc.);
    • l’attuazione della “de-indicizzazione” è subordinata non tanto alla volontà del Giudice, quanto a quella di un soggetto privato (es. Google), ossia a una company che il più delle volte non è assoggettata alla legislazione europea e che fa della circolazione dei contenuti il proprio core business. Tale situazione determina di fatto un’arbitrarietà della scelta da parte dei provider e che quindi funge da deus ex machina nel bilanciamento tra l’interesse legittimo del privato cittadino e le altre motivazioni contrapposte: il diritto di cronaca, l’interesse pubblico alla diffusione della notizia (valutata sulla base dell’indice di lettura della pagina), ecc. ;
    • Google ha già fatto sapere tutta una serie di casi nei quali, comunque, non procederà mai alla de-indicizzazione della notizia. Si tratta dei casi in cui la notizia riguarda:
      1. frodi finanziarie (per es.: l’amministratore di una società colpevole di bancarotta fraudolenta, oppure che ha nascosto gli utili agli azionisti; casi di insider trading, ecc.);
      2. negligenza professionale (per es.: un medico processato per una morte sospetta; un avvocato che ha perso una causa per un errore grave; un ingegnere che ha costruito un palazzo poi crollato, ecc.);
      3. condotta pubblica di funzionari statali (per es.: un caso di concussione o di corruzione);
      4. condanne penali. È proprio questo il punto più dolente: parlare di “condanne penali” (concetto che racchiude già tutti i casi appena elencati) è così generico da ricomprendere quasi tutte le richieste di diritto all’oblio (quasi sempre legate a processi di carattere penale, indagini della magistratura, ecc.). Va da sé che se Google escluderà, a priori, proprio queste istanze, il “modulo automatico” è praticamente inutile.
    • la sentenza della Corte di Giustizia si applica solo in Europa e non nel resto del mondo, dove Google potrà continuerà a rendere indicizzato il contenuto. Così, chi comunque faccia la ricerca su Google.com anziché su Google.it o su Google.fr troverà ugualmente la “pagina incriminata”. È anche questa l’ennesima (negativa) conseguenza del fatto che il contenuto incriminato non è stato cancellato ma solo rimosso dalle ricerche;
    • l’applicazione del diritto all’oblio in un contesto globale: prendendo ad esempio Facebook sono evidenti le molteplici sfide legate alla natura transnazionale della piattaforma e alla vastità della sua rete utenti, ad esempio:
      1. diversità di leggi sulla privacy: Facebook opera in numerosi paesi, ognuno con la propria legislazione in materia di protezione dei dati e privacy. Mentre in Europa il GDPR (Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati) fornisce una cornice abbastanza omogenea che include il diritto all’oblio, in altre regioni del mondo tale diritto potrebbe non essere riconosciuto o potrebbe essere interpretato in modi diversi. Questo pone la sfida di come applicare coerentemente una politica di privacy su scala globale;
      2. implementazione tecnica: la struttura tecnologica di Facebook è complessa e altamente distribuita, con server e centri dati dislocati in diverse parti del mondo. Quando un utente richiede la rimozione di contenuti basandosi sul diritto all’oblio, Facebook deve essere in grado di identificare e rimuovere efficacemente tali contenuti in tutte le sue infrastrutture, il che può essere tecnologicamente impegnativo;
      3. ambito di applicazione territoriale: c’è stata una notevole discussione sui confini territoriali dell’applicazione del diritto all’oblio. Ad esempio, se un utente in Francia chiede la rimozione di un contenuto, Facebook deve rimuovere quel contenuto solo per gli utenti nell’UE o globalmente? Le interpretazioni e le sentenze dei tribunali europei hanno variato nel tempo, aumentando la complessità della conformità.

    Marketing

    Il GDPR amplia il diritto all’oblio, comunemente associato al diritto di interrompere la diffusione di private informazioni, alla sfera dei dati con finalità di marketing. Come già affrontato fin qui, la cancellazione di dati personali è solitamente volta ad impedire l’espansione di informazioni obsolete e nocive per la propria nomea.

    Allargando tale concetto al contesto di marketing, anche qui il GDPR attribuisce all’utente, la facoltà di cancellazione dei propri dati sensibili, qualora questi non siano stati cancellati autonomamente alla cessazione dei termini per cui essi sono stati acquisiti. Qualora infatti dati acquisiti con finalità di marketing, fossero ancora presenti al termine del loro reale scopo per cui sono stati acquisiti, l’interessato potrà fare richiesta di cancellazione degli stessi senza la necessità di fornire valide motivazioni. Ulteriormente, tale diritto si applica anche qualora i dati siano stati acquisiti in modo illecito senza il consenso dell’interessato. Pertanto allorché quest’ultimo ne venisse a conoscenza, può far valere il diritto all’oblio e i propri dati dovranno essere eliminati, onde evitare sanzioni da parte dell’autorità garante, in quanto il loro trattamento non è conforme al GDPR.

    Ma allora: è possibile un diritto all’oblio in ambito digitale?

    La riflessione sulla natura e l’applicazione del diritto all’oblio nel contesto digitale apre un dibattito complesso e articolato che interroga direttamente i limiti delle tecnologie attuali e le loro implicazioni etiche e giuridiche. La questione centrale riguarda la possibilità di controllare e, in certi casi, limitare la persistenza delle informazioni personali nell’ecosistema digitale, in particolare nei motori di ricerca e nelle SERP (Search Engine Results Pages).

    Il diritto all’oblio è stato interpretato come la capacità di influenzare l’accessibilità delle informazioni digitali, volto a rendere più difficile il recupero di specifici dati personali, con l’obiettivo ultimo di preservare l’autonomia dell’individuo sulla propria identità digitale. Tale concetto si scontra però con la natura intrinsecamente transattiva e distribuita della memoria digitale, che fonde insieme capacità computazionali e interazioni umane in un processo di memorizzazione unificato e di difficile regolamentazione.

    Una possibile via d’uscita potrebbe consistere nell’adottare una concezione di “pseudo-deindicizzazione”, analogamente alla distinzione tra pseudo-anonimizzazione e anonimizzazione, che contempli diritti come la rettifica, l’aggiornamento e la cancellazione dei dati in modo più specifico e operativo.

    L’idea di un diritto all’Habeas SERP, ossia il controllo individuale sui risultati di ricerca legati al proprio nome, solleva questioni critiche relative alla libertà di espressione e al diritto di cronaca, ponendo l’identità digitale in una posizione potenzialmente predominante rispetto ad altri diritti fondamentali.

    La proposta di rendere pubblici gli algoritmi di ricerca potrebbe democratizzare l’accesso a tecniche di ottimizzazione SEO, ma comporterebbe al contempo rischi di manipolazione informativa e alterazioni degli equilibri di mercato, soprattutto per quanto riguarda i motori di ricerca dominanti. In definitiva, qualsiasi tentativo di normare il diritto all’oblio digitale richiederebbe un accordo internazionale, per evitare disparità di trattamento e digital divide. Tuttavia, l’adeguamento sociale e tecnologico all’evoluzione della memoria digitale potrebbe offrire un terreno fertile per nuove soluzioni che bilancino privacy, diritto all’informazione e libertà di espressione.

    Già dagli anni 2000, il Garante italiano per la protezione dei dati personali ha affrontato la questione della “gogna elettronica”, sottolineando la necessità di un diritto all’oblio che consentisse agli individui di richiedere la rimozione di notizie online non più attuali o rilevanti. Questa preoccupazione ha portato alla richiesta ai motori di ricerca di aggiornare periodicamente i dati online per riflettere situazioni attuali, sottolineando l’importanza dell’accuratezza e della pertinenza delle informazioni disponibili sul web.

    Con provvedimenti successivi, l’Autorità Garante ha ribadito l’importanza dell’aggiornamento degli archivi giornalistici online, offrendo la possibilità di aggiungere note o link che forniscano contesto aggiuntivo, garantendo così una rappresentazione completa e aggiornata delle notizie riguardanti individui specifici.

    L’intervento del Garante nel 2019, in relazione a una richiesta di cancellazione di articoli giudiziari, ha sottolineato il delicato bilanciamento tra il diritto alla privacy e la libertà di cronaca. L’Autorità ha riconosciuto la legittimità del trattamento dei dati personali per finalità giornalistiche, anche senza il consenso degli interessati, a condizione che tale trattamento rispetti la libertà e la dignità dell’individuo e si basi su fatti di rilevanza pubblica. In questo caso, l’interesse pubblico prevaleva sulla richiesta di esercizio del diritto all’oblio, data la rilevanza della vicenda giudiziaria e il ruolo pubblico di uno dei soggetti coinvolti.

    La “riforma Cartabia” del 2021 rappresenta un ulteriore passo avanti, delegando il governo a regolamentare la deindicizzazione di dati personali in caso di archiviazione o assoluzione in procedimenti giudiziari, rafforzando così il diritto all’oblio degli individui coinvolti in indagini o processi. Questa legislazione stabilisce criteri specifici per garantire la rimozione efficace di informazioni obsolete o non più rilevanti dai motori di ricerca, sottolineando l’importanza di una pronta reazione in caso di mancato adempimento.

    Queste evoluzioni normative e giurisprudenziali evidenziano la crescente consapevolezza della necessità di bilanciare la libertà dell’informazione con i diritti fondamentali degli individui nell’era digitale. Tuttavia, la rapidità dell’innovazione tecnologica e la sua influenza sulla diffusione delle informazioni sollevano questioni complesse relative alla regolamentazione dell’informazione online. La definizione di una “etica del cybernauta” e l’elaborazione di principi per una “cittadinanza digitale” responsabile sono fondamentali per garantire che la libertà di espressione non diventi un veicolo per l’offesa o la diffamazione, sottolineando la necessità di un equilibrio tra i diritti individuali e l’accesso pubblico all’informazione in un contesto sempre più dominato da realtà virtuali e piattaforme digitali.

    Nel contesto della “società digitale”, dove le informazioni sono facilmente registrate, archiviate e accessibili online, il diritto all’oblio è diventato un tema centrale nei dibattiti sulla privacy e sulla gestione delle informazioni personali. Le persone possono essere danneggiate o discriminate a causa di informazioni obsolete o imprecise che rimangono online e il diritto all’oblio può offrire una forma di protezione in questi casi.

    Tuttavia, implementare effettivamente il diritto all’oblio è complicato, poiché coinvolge un delicato equilibrio tra la protezione della privacy individuale e la libertà di informazione. Le piattaforme online devono trovare modi per rispettare le richieste di rimozione delle informazioni senza compromettere la disponibilità di informazioni legittime e importanti.

    In definitiva, il diritto all’oblio rappresenta una sfida importante per la società digitale, poiché cerca di trovare un equilibrio tra la protezione della privacy individuale e la libertà di informazione in un ambiente online in continua evoluzione.

    La complessa relazione tra la tutela del diritto all’oblio nell’era digitale e la natura globale della rete Internet solleva questioni significative circa l’efficacia e l’applicabilità della legislazione in materia di protezione dei dati personali, come dimostrato dal GDPR e dalla giurisprudenza relativa. Il caso Google del 2019 presso la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha messo in evidenza i limiti territoriali del diritto all’oblio, stabilendo che la deindicizzazione dei dati personali richiesta in base all’articolo 17 del GDPR debba essere attuata solo all’interno dell’Unione Europea, senza imporre obblighi di cancellazione globale ai gestori dei motori di ricerca.

    Questa decisione sottolinea l’inadeguatezza di un quadro normativo che non contempla un’effettiva tutela dell’oblio su scala mondiale, evidenziando le difficoltà nell’armonizzare la protezione dei dati personali con il carattere intrinsecamente senza confini della rete. Sebbene il GDPR rappresenti un avanzamento significativo nella protezione dei diritti degli individui nell’ambito digitale, la sua portata limitata territorialmente lascia aperte questioni relative alla gestione dei dati personali su piattaforme accessibili globalmente. In conclusione, la tutela dell’oblio in Internet rimane un ambito di notevole complessità, dove le normative esistenti si scontrano con la natura decentralizzata e globale della rete. La ricerca di un equilibrio tra la dignità della persona e la libertà di espressione si manifesta come una sfida continua, resa ancora più ardua dai rapidi sviluppi tecnologici. Il dibattito sull’adeguatezza delle normative in questo contesto è aperto, richiedendo agli interpreti un costante sforzo ermeneutico per navigare tra le incertezze disciplinari e le dinamiche in evoluzione del mondo digitale. In questo scenario, l’imperativo di trovare soluzioni che riflettano i valori fondamentali della società nell’era dell’informazione si affianca alla consapevolezza che soluzioni universalmente applicabili possono essere difficili, se non impossibili, da realizzare in un ambiente caratterizzato da un “algoritmo sovrano” che continua a ridefinire le modalità di interazione e di espressione nell’ambito virtuale.


    [1] https://reportcontent.google.com/forms/rtbf

    [2]  La locuzione inglese Search Engine Results Page, più semplicemente “SERP”, indica comunemente la pagina dei risultati di un motore di ricerca.

    [3] https://www.bing.com/webmaster/tools/eu-privacy-request

    [4] https://io.help.yahoo.com/contact/index?page=contactform&locale=it_IT&token=Zh%2FBBVqXzLHlIbokbUqVWTUbuuQeXGkGzJ%2FxkLsJP07Zgk%2B%2B1eFwBr5d5R9oF0htO%2BBvaT6%2BQLZMo4%2BSEICbjKW0zsv%2BqoEY6hjokP5ca3%2FIpyH1fp5qSukQCRifkLYrh8vWbODAAU3Jgf9Mu86t7Q%3D%3D&selectedChannel=email-icon&yid=

    [5] www.istella.it

    [6] https://www.istella.it/it/privacy

    [7] https://www.linkedin.com/help/linkedin/topic/a65?trk=hc-hp-recommendedTopics

    [8] https://it-it.facebook.com/legal/terms/previous

    [9] https://www.facebook.com/legal/terms/update?ref=old_policy

    [10] https://www.facebook.com/privacy/policy/?entry_point=data_policy_redirect&entry=0

    [11] https://www.facebook.com/help/125338004213029

    [12] In caso di eliminazione permanente dell’account, Facebook. garantisce l’eliminazione di tutti i contenuti, anche quelli memorizzati sui propri sistemi di backup, entro novanta giorni successivi alla relativa richiesta, ad eccezione di alcuni contenuti al cui presenza sia reputata necessaria per motivi tecnici. Alcune informazioni rimarranno tuttavia ancora presenti nei sistemi di Facebook Inc. nonostante l’eliminazione.

    [13] https://www.facebook.com/help/contact/144059062408922

    [14] https://www.facebook.com/help/contact/319149701968527

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    Telegram e l’Internet libero

    Telegram è un’applicazione di messaggistica focalizzata su velocità e sicurezza, è semplice e gratuita.

    Telegram è sostenuto da Pavel Durov[1] e suo fratello Nikolai. Pavel supporta Telegram finanziariamente e ideologicamente, mentre il contributo di Nikolai è tecnologico.

    Il team di sviluppo di Telegram ha la sua sede a Dubai e la maggior parte degli sviluppatori viene da San Pietroburgo. Il team di Telegram ha dovuto lasciare la Russia a causa delle normative legate al mondo IT, e ha cercato posizioni diverse come base, incluse Berlino, Londra e Singapore.

    • Una delle caratteristiche distintive di Telegram è la sua filosofia orientata alla privacy e alla sicurezza.
    • Supporta due livelli di crittografia[2]:
    •  crittografia server-client che è usata nelle Chat Cloud (chat private e di gruppo);
    • crittografia end-to-end: opzionale per le chat segrete che garantisce che solo mittente e il destinatario possano leggere i messaggi scambiati in una chat segreta. Non è abilitata di default.

    Tutti i dati, a prescindere dal tipo, sono crittografati nella stessa maniera, sia che siano testi, media o altro tipo.

    • Chat segrete: le chat segrete sono chat cifrate end-to-end, che offrono una maggiore sicurezza per le conversazioni. In queste chat, i messaggi possono essere autodistrutti dopo un certo periodo di tempo o dopo la lettura e non permettono l’inoltro.  Un messaggio eliminato nella conversazione, viene eliminato anche “dall’altra parte”. Inoltre, per garantire una maggiore privacy, i messaggi scambiati non lasciano tracce sui server Telegram, non fanno parte del cloud di Telegram e vi si può accedere solo dal dispositivo di origine[3].
    • Cloud storage illimitato: offre uno spazio di archiviazione cloud gratuito e illimitato, rendendo facile il recupero dei dati in caso di perdita del dispositivo.
    • È basato sul cloud con sincronizzazione istantanea. Ciò consente di accedere ai propri messaggi da diversi dispositivi contemporaneamente e condividere un numero illimitato di file fino a 2 GB ciascuno.
    • Gruppi di chat: è possibile creare gruppi di chat fino a 200.000 partecipanti e condividerli con il mondo o mantenerli privati. Gli amministratori di gruppo hanno il controllo su chi può unirsi al gruppo e quali azioni possono essere seguite all’interno.
    • Canali Telegram: i canali sono simili ai gruppi, ma consentono agli amministratori di inviare messaggi in un solo senso, a un pubblico illimitato. Sono spesso usati per diffondere notizie, aggiornamenti e contenuti a un pubblico vasto.
    • Multi-piattaforma: Telegram è disponibile su diverse piattaforme, tra cui iOS, Android, Windows, macOS e anche come versione web.
    • Chiamate vocali e video: supporta chiamate vocali e video. Supporta inoltre le chiamate vocali con crittografia end-to-end.
    • Bot Telegram: è possibile aggiungere bot di terze parti alle proprie chat o ai propri gruppi per svolgere una varietà di compiti, come ricevere aggiornamenti meteo, notizie o eseguire attività automatizzate.
    • L’infrastruttura con più data center e la crittografia implementata, permette a Telegram di essere più veloce e molto più sicuro.
    • È possibile eliminare tutti i messaggi inviati o ricevuti in una chat individuale, mentre nei gruppi eliminare solo i propri messaggi. È possibile anche cancellare l’intera cronologia della chat individuale e del gruppo: i messaggi eliminati non lasciano traccia nella chat.

    Gruppi e canali, le differenze

    Sono entrambi strumenti di comunicazione che consentono agli utenti di condividere messaggi, contenuti e comunicare con altri membri. Tuttavia, ci sono alcune differenze chiave tra i due:

    • Interazione bidirezionale nei gruppi, unidirezionale nei canali
    • Gruppi: tutti i membri possono inviare messaggi e partecipare attivamente alla conversazione. Gli amministratori del gruppo possono moderare i messaggi e gestire i membri. È possibile attivare la cronologia permanente per consentire ai nuovi membri di accedere ai messaggi precedenti.
    • Canali: la comunicazione è unidirezionale. Gli amministratori o i proprietari del canale possono inviare messaggi, ma i membri possono solo leggere e reagire ai messaggi inviati.
    • Privacy e visibilità
    • Gruppi: possono essere pubblici o privati. Nei gruppi pubblici, chiunque può cercare e unirsi al gruppo, mentre nei gruppi privati, è necessario un invito da parte di un amministratore per partecipare (solitamente un link).
    • Canali: possono essere pubblici, il che significa che chiunque può iscriversi al canale senza bisogno di un invito. Per i canali privati occorre essere aggiunto dal creatore o avere un link di invito per unirsi.
    • Numeri di partecipanti
    • Gruppi: possono ospitare fino a 200.000 membri.
    • Canali: possono ospitare un numero virtualmente illimitato di iscritti.
    • Moderazione:
    • Gruppi: gli amministratori di gruppo hanno il controllo su chi può unirsi al gruppo, chi può inviare messaggi e quali azioni possono essere eseguite all’interno del gruppo. Possono rimuovere o bandire membri inappropriati o disturbatori.
    • Canali: gli amministratori dei canali possono moderare i commenti nei messaggi, ma non possono impedire a nessuno di iscriversi o di visualizzare i messaggi del canale.

    Gli utenti

    Gli utentiÈ possibile contattare un utente su Telegram attraverso il suo numero di telefono[4], altrimenti:

    • quando si è membri dello stesso gruppo;
    • se viene impostato un username pubblico altri utenti potranno usare la “ricerca globale” in base a quell’username;
    • se si sceglie di comparire nella sezione “Persone vicine[5] (questa opzione è disattivata di default).

    Inoltre:

    • non è necessario avere un username di Telegram e averne uno serve solamente perché le persone possano trovare quell’utente nella ricerca globale senza conoscere il numero telefonico;
    • è possibile avere solo un username di base e un numero qualsiasi di username collezionabili contemporaneamente. Questo vale anche per i gruppi pubblici e i canali pubblici. Gli username collezionabili[6] funzionano esattamente come gli username base, appaiono nei risultati della “ricerca globale”, e hanno i propri link dedicati che possono essere usati al di fuori di Telegram[7];
    • nessuno degli interlocutori vedrà gli altrui numeri telefonici a meno che questo non sia permesso nelle impostazioni della privacy;
    • è possibile eliminare l’account dalla pagina di disattivazione[8]. L’operazione rimuoverà permanentemente tutti i propri messaggi, i propri gruppi e i propri contatti. Tale azione deve essere confermata dal proprio account Telegram[9] e non può essere annullata. Infine, l’account Telegram viene eliminato dopo 6 mesi di inutilizzo[10].

    Telegram ha due principi fondamentali quando si tratta di raccogliere ed elaborare dati privati:

    • non utilizza i dati personali per mostrare annunci pubblicitari;
    • conserva solo i dati di cui ha bisogno per funzionare come servizio di messaggistica sicuro e funzionale.

    Nella fattispecie Telegram:

    • ai fini della legislazione applicabile sulla protezione dei dati, è il titolare del trattamento dei dati, responsabile dei dati personali quando si utilizzano i suoi servizi;
    • per i paesi dello Spazio Economico Europeo (SEE), poiché si trova al di fuori dello SEE, Telegram ha designato una terza parte: l’Ufficio Europeo per la Protezione dei Dati (EDPO) come rappresentante ai sensi dell’articolo 27 del GDPR. È possibile indirizzare all’EDPO qualsiasi domanda relativa al GDPR utilizzando il modulo di richiesta online all’indirizzo https://edpo.com/gdpr-data-request/ oppure scrivendo all’EDPO in Avenue Huart Hamoir 71, 1030 Bruxelles, Belgio;
    • tratta i dati personali sulla base del fatto che tale trattamento è necessario per garantire i propri interessi legittimi (tra cui: (1) fornire servizi efficaci e innovativi agli utenti; (2) rilevare, prevenire o altrimenti affrontare frodi o problemi di sicurezza in relazione alla fornitura di servizi), a meno che tali interessi non siano superati dall’interesse o dai diritti e libertà fondamentali che richiedono la protezione dei dati personali dell’utente.

    Di seguito come Telegram utilizza e gestisce dati personali dell’utente:

    • dati dell’account di base: utilizza il numero di cellulare e i dati di base dell’account (ovvero: nome del profilo, immagine del profilo e informazioni), ma specifica che “…non vogliamo sapere il tuo vero nome, sesso, età o cosa ti piace” e non è necessario che il nickname sia il vero nome[11];
    • l’indirizzo di posta elettronica: quando si abilita la verifica in due passaggi per l’account o si archivia documenti utilizzando la funzione Telegram Passport, è possibile scegliere di impostare un’e-mail di recupero password. Questo indirizzo verrà utilizzato solo per l’invio di un codice di recupero password. In caso di accesso con Google o Apple, Telegram potrebbe chiedere ad alcuni utenti di fornire un indirizzo email per ricevere i codici di accesso via email anziché via SMS, in questo caso tale indirizzo email verrà archiviato separatamente dall’email di recupero e verrà utilizzato solo per l’invio dei codici di autenticazione per l’accesso all’account;
    • i messaggi: Telegram è un servizio cloud sul quale tutti i dati (messaggi, foto, video e documenti delle chat cloud), vengono archiviati e fortemente crittografati e le chiavi di crittografia sono archiviate in diversi altri data center in diverse giurisdizioni. In questo modo nessuno può accedere ai dati dell’utente.

    Le chat segrete utilizzano la crittografia end-to-end, ciò significa che tutti i dati vengono crittografati con una chiave che solo mittente e destinatario conoscono. Non c’è modo per Telegram o chiunque altro senza accesso diretto al dispositivo di conoscere quei messaggi. Telegram non memorizza le chat segrete sui server e per tanto le chat segrete non sono disponibili nel cloud: è possibile accedere a quei messaggi solo dal dispositivo a o da cui sono stati inviati[12].

    Oltre ai messaggi privati, Telegram supporta anche canali pubblici e gruppi pubblici. Tutte le chat pubbliche sono chat cloud e sono crittografate, sia in archiviazione che in transito;

    • numero di telefono e contatti: Telegram utilizza i numeri di telefono come identificatori univoci in modo che sia facile passare dagli SMS e da altre app di messaggistica e mantenere così la rete sociale. Telegram chiede il consenso prima di sincronizzare i contatti (solo numero e nome e cognome)[13];
    • dati sulla posizione: se si condivide una posizione in una chat, questi dati sulla posizione vengono trattati rispettivamente come altri messaggi nel cloud o nelle chat segrete;cookies: vengono utilizzati solo quelli necessari per operare e fornire i servizi sul web[14];
    • memorizzazione dei dati: per iscritti a Telegram dal Regno Unito o dallo Spazio Economico Europeo, i dati vengono archiviati in data center nei Paesi Bassi[15]. Tutti i dati vengono archiviati pesantemente crittografati in modo che nessuno possa accedere al loro contenuto.

    In quanto un servizio cloud, Telegram elabora i dati per fornire la cronologia della chat cloud, inclusi messaggi, contenuti multimediali e file, a qualsiasi dispositivo di a scelta dell’utente senza la necessità di utilizzo di backup di terze parti.

     

    • Sicurezza e protezione: data l’enorme popolarità, per migliorare la sicurezza dell’account utente, nonché per prevenire spam, abusi e altre violazioni ai termini di servizio, Telegram potrebbe raccogliere metadati come l’indirizzo IP, i dispositivi e le app Telegram utilizzate, la cronologia delle modifiche al nome utente, ecc. Se raccolti, questi metadati possono essere conservati per un massimo di 12 mesi. I moderatori possono controllare i messaggi che sono stati segnalati loro dai loro destinatari, in caso accertata violazione su un messaggio inviato l’account mittente potrebbe essere limitato dal contattare estranei, temporaneamente o permanentemente. In caso di violazioni più gravi, l’account potrebbe essere bannato. Telegram può anche utilizzare algoritmi automatizzati per analizzare i messaggi nelle chat cloud per bloccare spam e phishing.
    • Nessuna pubblicità basata sui dati dell’utente: Telegram non utilizza i dati utente per il targeting degli annunci o altri scopi commerciali.I bot: Telegram ha un’API che consente agli sviluppatori di terze parti di creare bot, utilizzandoli, l’utente invierà alcuni dei propri dati dell’account pubblico ai rispettivi sviluppatori di bot di terze parti: nome utente e immagine/i del profilo.
    • I diritti riguardo ai dati personali forniti: ai sensi della legislazione applicabile sulla protezione dei dati, in determinate circostanze, l’utente ha i il diritto di:richiedere una copia di tutti i propri dati personali conservati e di trasmettere tale copia a un altro titolare del trattamento;cancellare o modificare i dati personali;limitare o opporsi al trattamento dei propri dati personali;correggere eventuali dati personali inesatti o incompleti.

    Se Telegram riceve un’ordinanza del tribunale che conferma che un utente è sospettato di terrorismo, potrebbe divulgare l’indirizzo IP e numero di telefono alle autorità competenti. In tal caso, l’esecuzione di tale ordinanza verrà inclusa in un rapporto semestrale sulla trasparenza pubblicato all’indirizzo: https://t.me/transparency. Alla data di redazione di questo documento, 26/08/2024, non vi sono report per l’Italia:

    Nota: affinché una decisione giudiziaria sia rilevante, deve provenire da un paese con un indice di democrazia sufficientemente alto per essere considerato una democrazia (https://en.wikipedia.org/wiki/Democracy_Index). Possono essere condivisi solo l’indirizzo IP e il numero di telefono.

    Account

    L’eliminazione di un account è possibile nella pagina di disattivazione. L’eliminazione dell’account rimuove tutti i messaggi, i contenuti multimediali, i contatti e ogni altro dato archiviato nel cloud di Telegram. Questa azione deve essere confermata tramite l’account Telegram e non può essere annullata. Per impostazione predefinita, se si smette di usare Telegram e non si è online per almeno 6 mesi, l’account verrà eliminato insieme a tutti i messaggi, i media, i contatti e ogni altro dato nel cloud di Telegram. Su Impostazioni è possibile modificare tale periodo;

    Messaggi

    • nelle chat segrete, l’eliminazione di un messaggio indica sempre all’app dall’altra parte di eliminarlo;
    • nelle chat individuali qualsiasi parte può scegliere di eliminare qualsiasi messaggio, sia inviati che ricevuti, per entrambe le parti. Non c’è limite di tempo. Qualsiasi parte può anche scegliere di cancellare l’intera cronologia della chat per entrambe le parti, nel qual caso alle app verrà richiesto di rimuovere tutti i messaggi in quella chat, indipendentemente dal numero di messaggi conservati da uno dei partecipanti;
    • nei supergruppi e nei canali, l’eliminazione di un messaggio lo rimuove per tutti i partecipanti. I messaggi eliminati e le versioni originali dei messaggi modificati dei supergruppi vengono archiviati per 48 ore dopo l’eliminazione per poter essere visualizzati nel registro degli amministratori;
    • è possibile ordinare ai messaggi nelle chat segrete di autodistruggersi non appena viene letto. Allo scadere del timer, ad entrambi i dispositivi che partecipano ad una chat segreta viene richiesto di eliminare il messaggio (foto, video, ecc.).
    • Informativa sulla Privacy
    • @EURegulation per richiedere una copia di tutti i propri dati archiviati da Telegram o altre info sulla privacy dei dati;
    • contenuto illegale su Telegram[17]: i set di sticker, i canali e i bot su Telegram sono disponibili pubblicamente, se ritenuti illegali o pornografici è possibile segnalarli a abuse@telegram.org;
    • set di sticker che violano i diritti di proprietà intellettuale: dmca@telegram.org;
    • inviare una richiesta relativa al Regolamento UE 2021/784: il Regolamento (UE) 2021/784 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2021, relativo al contrasto della diffusione di contenuti terroristici online (Terrorist Content Online Regulation, o regolamento TCO), consente alle autorità dei Paesi dell’UE di inviare richieste di rimozione di contenuti terroristici, se scoperti sulla piattaforma pubblica di Telegram; quest’ultimo inoltre ha designato una terza parte, l’European Digital Services Representative (EDSR), per assistere nelle comunicazioni relative al TCO. Gli utenti le cui pubblicazioni sono state rimosse in seguito al regolamento TCO possono richiedere dettagli sul motivo per cui le loro pubblicazioni sono state considerate terroristiche e su come contestare la rimozione:
      • scrivendo a EDSR, Avenue Huart Hamoir 71, 1030 Bruxelles, Belgio;
      • contattando il bot @EURegulation su Telegram e usando il comando /tco_ask.
    • stopCA@telegram.org: per segnalare abusi sui minori. Mentre t.me/stopCA è il canale che pubblica aggiornamenti giornalieri sui contenuti vietati relativi alle CA – Child Abuse.

    [1] https://it.wikipedia.org/wiki/Pavel_Durov

    [2] Basata sulla crittografia AES simmetrica a 256-bit, sulla crittografia RSA 2048 e sullo scambio di chiavi di sicurezza Diffie-Hellman.

    [3] Tutte le chat segrete su Telegram sono specifiche del dispositivo e non fanno parte del cloud di Telegram. Questo significa che vi si può accedere solo dal dispositivo di origine.

    [4] Il numero di telefono è l’unico modo per identificare un utente Telegram. Telegram non raccoglie ulteriori informazioni sull’utente, quindi chi ha il numero ha l’account.

    [5] Persone vicine è una funzione opzionale che permette agli utenti di Telegram di scoprire i gruppi locali, trovare amici con cui chattare nella loro zona, o scambiare rapidamente contatti con chi si trova nelle vicinanze. Nota: Persone vicine non è mai attivo di default – gli utenti devono abilitarlo manualmente.

    [6] Gli username collezionabili possono essere acquistati e venduti attraverso la piattaforma d’asta Fragment, uno strumento per acquisire e scambiare domini Telegram di valore. L’acquisto di un username tramite la piattaforma conferisce una proprietà permanente, verificata dalla blockchain TON. I proprietari di username collezionabili possono liberamente assegnarli alle chat, venderli ad altri o conservarli per un uso successivo.

    [7] username.t.me e t.me/username.

    [8] https://my.telegram.org/auth?to=delete

    [9] Verrà ricevuto un codice via Telegram e non via SMS,

    [10] Assieme a tutti i messaggi, media, contatti e ogni altro dato archiviato nel cloud di Telegram. È possibile cambiare tale periodo.

    [11] Tieni presente che gli utenti che ti hanno tra i loro contatti ti vedranno con il nome che hanno salvato e non con il tuo nickname. In questo modo tua madre può avere il nome pubblico “Johnny Depp” mentre appare come “mamma” per te.

    [12] I media nelle chat segrete: prima di essere caricato, ogni elemento viene crittografato con una chiave separata, non nota al server. Questa chiave e la posizione del file vengono quindi nuovamente crittografate, questa volta con la chiave della chat segreta e inviate al destinatario. Ciò significa che tecnicamente il file si trova su uno dei server di Telegram, ma a tutti tranne che al mittente e al destinatario sembra un pezzo di spazzatura indecifrabile e casuale. Telegram elimina periodicamente questi dati casuali dai server per risparmiare spazio.

    [13] È possibile interrompere la sincronizzazione dei contatti o eliminarli dai server Telegram: Impostazioni > Privacy e sicurezza > Contatti.

    [14] Il browser utilizzato dall’utente, inoltre, consente di controllare questi cookie, incluso se accettarli o meno e come rimuoverli.

    [15] Si tratta di data center forniti da terze parti in cui Telegram affitta uno spazio designato, tuttavia, i server e le reti che si trovano all’interno di questi data center e su cui sono archiviati i dati personali sono di proprietà di Telegram. Pertanto, non vengono condivisi i dati personali con tali data center.

    [16] https://telegram.org/privacy/eu

    [17] Tutte le chat e i gruppi di Telegram sono territorio privato dei loro rispettivi partecipanti. Telegram non eseguirà alcuna richiesta relativa ad esse.

     

    Diritto dei dati – Tutela giurisdizionale e amministrativa

    Tutela amministrativa e giurisdizionale. Ruolo del Garante privacy e poteri di indagine e correttivi. Sanzioni amministrative pecuniarie, accessorie e risarcimento del danno. Big data e dati non personali.

    La tutela giurisdizionale e amministrativa, ovvero come in qualche modo ci si tutela di fronte ad una violazione del trattamento, dei principi del trattamento, comunque in generale delle regole sul trattamento dei dati personali disposte dal GDPR. Andiamo quindi a vedere le regole di cui agli articoli 77 e seguenti del GDPR che prevedono diversi strumenti di tutela. A tutela di cosa? Ovviamente dei diritti dell’interessato che è sempre il soggetto di cui ci dobbiamo accertare che il trattamento sia eseguito in modo corretto. In particolare le forme di tutela, appunto, sono tre. La prima, articolo 77, è la tutela in via amministrativa di fronte a quella che il GDPR chiama l’autorità di controllo. L’autorità di controllo che interviene rispetto ad un trattamento che viola il GDPR è nel nostro ordinamento il Garante Privacy, quindi l’Autorità per la protezione per il trattamento dei dati personali e che chiamiamo in generale o l’autorità o il garante. Quindi tutela amministrativa di fronte all’Autorità garante della privacy. Un secondo profilo di tutela, articolo 78, tutela in via giurisdizionale, quindi di fronte al giudice, rispetto ad una decisione dell’autorità. Quindi quando l’Autorità prende una decisione poi ci si può rivolgere al giudice perché intervenga in seconda battuta rispetto alla decisione presa appunto dall’Autorità. Ultima forma di tutela, di nuovo in via giurisdizionale, quindi di fronte al giudice, per l’esercizio di un diritto riconosciuto dal GDPR. Quindi direttamente mi rivolgo al giudice per far valere un diritto che il GDPR mi riconosce. Innanzitutto partiamo dall’autorità. Qual è l’autorità? Perché ovviamente noi siamo di fronte al GDPR, quindi di fronte a un Regolamento che vale in tutti i Paesi dell’Unione europea. Per individuare l’autorità competente quindi andremo ad applicare il cosiddetto criterio di prossimità con l’interessato, quindi per riconoscere qual è l’autorità competente a intervenire rispetto ad una nostra supposta violazione, quella che noi riteniamo essere una violazione del GDPR andremo a rivolgerci all’autorità o del luogo dove noi come interessati risiediamo, quindi il luogo di residenza abituale dell’interessato, oppure il luogo in cui l’interessato lavora, in alternativa, oppure ancora il luogo in cui è stata effettuata la violazione. Perché la violazione ovviamente inerisce al trattamento e quindi andiamo a rivolgerci all’autorità del luogo in cui il trattamento ha concretamente luogo, quindi se quel certo titolare ha il suo stabilimento in un certo Paese noi ci rivolgeremo all’autorità di quel Paese. Rispetto invece all’autorità giudiziaria, quindi quando adiamo il giudice, quando scegliamo la tutela giurisdizionale, anche qui la regola è quella del rivolgerci al tribunale del luogo in cui il titolare ha lo stabilimento, quindi del luogo in cui si realizza il trattamento di dati oppure il luogo in cui l’interessato ha la sua residenza. Ciò a meno che il titolare non sia una autorità pubblica, quindi se il titolare invece è l’autorità pubblica, allora ci rivolgiamo al giudice del luogo in cui ha sede l’autorità in questione.

    Ci soffermiamo sulla tutela dei dati personali all’interno del quadro normativo del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) e la sua implementazione nel diritto italiano, particolarmente attraverso il Codice Privacy aggiornato con il decreto legislativo 101 del 2018. Esploriamo la figura dell’Autorità di controllo, in Italia rappresentata dal Garante per la protezione dei dati personali, e le modalità con cui gli individui possono rivolgersi a questa autorità o al sistema giudiziario per far valere i propri diritti.

    Il GDPR prevede strumenti specifici per la tutela dei diritti degli interessati, iniziando con la possibilità di presentare un reclamo amministrativo all’Autorità di controllo qualora si ritenga che sia stata violata la normativa sulla protezione dei dati. Se l’Autorità prende una decisione che non soddisfa l’interessato, quest’ultimo ha il diritto di rivolgersi al sistema giurisdizionale per impugnare tale decisione. Inoltre, esiste la possibilità di avviare azioni giurisdizionali dirette per esercitare i diritti riconosciuti dal GDPR, come il diritto di accesso ai dati, o per ottenere un risarcimento in caso di danni subiti a seguito di violazioni del regolamento.

    Un aspetto importante è il principio di alternatività degli strumenti di tutela introdotto dall’articolo 140 bis del Codice Privacy. Questo principio stabilisce che la scelta di una via di tutela (amministrativa o giurisdizionale) preclude automaticamente l’uso dell’altra per lo stesso motivo, a meno che non siano presenti condizioni particolari, come il mancato riscontro da parte del Garante entro i termini massimi stabiliti.

    Un accenno, inoltre, alla questione delle sanzioni amministrative pecuniarie, che devono essere effettive, proporzionate e dissuasive, seguendo i criteri stabiliti dall’articolo 83 del GDPR. Viene sottolineato il ruolo del Garante, che può esercitare una varietà di poteri correttivi, da semplici ammonimenti a sanzioni pecuniarie, per garantire la conformità al regolamento.

    Diamo un’occhiata ora alle implicazioni più ampie della protezione dei dati nell’era digitale, quando toccano temi come i big data e la distinzione tra dati personali e non personali. In particolare, come il trattamento di grandi volumi di dati spesso unisce informazioni di natura diversa, sollevando sfide significative per quanto riguarda la protezione e l’autodeterminazione degli individui. Questo contesto richiede una regolamentazione che bilanci efficacemente le esigenze economiche e i diritti fondamentali delle persone, una sfida che continua a evolvere con il progresso tecnologico. Le implicazioni dei big data, un concetto che si riferisce all’immensa quantità di dati generati costantemente dall’interazione tra persone e tecnologie digitali. Il trattamento dei big data presenta una serie di sfide particolari per la protezione dei dati personali, poiché spesso combina dati personali e non personali, rendendo il confine tra questi due tipi sempre più sfumato. Il GDPR, che si focalizza sulla protezione dei dati personali, trova applicazione anche nei contesti in cui i dati non personali e personali si intrecciano così strettamente da non poter essere distinti. Questo è particolarmente rilevante in contesti in cui il trattamento di enormi volumi di dati da parte delle tecnologie digitali può influenzare decisioni che hanno impatti diretti sugli individui, come nel caso delle raccomandazioni personalizzate o delle previsioni comportamentali.

    L’analisi dei big data può permettere alle organizzazioni di scoprire pattern e tendenze nascoste nei comportamenti umani, offrendo così possibilità predittive che possono essere usate in vari settori, dalla pubblicità al monitoraggio della salute. Queste capacità predittive, tuttavia, sollevano questioni significative riguardo al consenso e alla trasparenza. Per esempio, le persone sono veramente consapevoli e in grado di autorizzare l’uso dei loro dati quando accettano i termini di servizio di app o piattaforme che fanno largo uso di algoritmi di analisi?

    Inoltre, l’accento va posto anche su come la normativa europea stia evolvendo per rispondere a questi cambiamenti. Un esempio è il Data Act, un regolamento dell’UE recentemente proposto che mira a regolamentare non solo i dati personali ma anche i dati non personali, riflettendo così la crescente importanza economica e sociale di entrambi i tipi di dati. Questo regolamento si propone di garantire che i dati siano trattati in modo equo e trasparente, cercando di bilanciare le esigenze del mercato digitale con i diritti fondamentali delle persone.

    In conclusione, il trattamento dei big data impone una riflessione critica su come le informazioni vengono utilizzate e sulla necessità di garantire che i diritti alla privacy e all’autodeterminazione informativa rimangano centrali nel contesto di una società sempre più guidata dai dati.

    Diritto dei dati – I dati personali dei minori

    Minori e privacy. Età del consenso digitale e liceità del trattamento, identità personale, intervento dell’esercente la responsabilità genitoriale. Riferimenti a casi giurisprudenziali.

    L’articolo 8 del GDPR riguarda il tema dei dati personali dei minori. Quindi facciamo un focus proprio sui minori di età, i soggetti under 18. È un tema che da alcuni punti di vista può sembrare ovvio, il fatto che si parli di dati personali di minori di età, ma in realtà è una cosa relativamente nuova perché prima del GDPR non era previsto nulla che riguardasse in modo specifico il modo in cui si trattano i dati personali dei minori. È una novità del GDPR, a cui poi ha fatto seguito ovviamente il coordinamento da parte del legislatore italiano con il decreto legislativo 101 del 2018. Però è anche un tema abbastanza nuovo per motivi diversi. Sicuramente quello più immediato è il contesto storico di riferimento di questa normativa, normativa del 2016. Però ovviamente la specifica attenzione ai minori è data dal fatto che negli ultimi anni, nell’ultimo decennio, i minori di età hanno una possibilità di accedere a strumenti, computer, telefoni, tablet e così via, che permettono di trattare direttamente i loro dati personali. Quindi l’esigenza di tutela specifica del minore non più in generale come soggetto da tutelare al pari anche dell’adulto, ma come soggetto da tutelare in modo più specifico e più dettagliato perché proprio per le vulnerabilità che caratterizzano la minore età è necessario apprestare degli strumenti di tutela ad hoc, proprio perché non si può paragonare il minore all’adulto rispetto a quella che è la consapevolezza dell’utilizzo degli strumenti digitali, proprio perché nel nostro ordinamento c’è un’attenzione rispetto al minore in quanto tale, in quanto soggetto che deve godere di una tutela specifica anche dal punto di vista del trattamento dei dati personali. Quindi in qualche modo abbiamo un passaggio dovuto proprio all’utilizzo di quelli che vengono chiamati i nuovi media. Quindi se rispetto al passato, se rispetto al momento storico si tutelava la riservatezza in quanto tale e quindi anche la riservatezza del minore veniva tutelata di fronte all’utilizzo delle figure, riferimenti delle figure dei minori rispetto a quello che poteva essere diffuso sui giornali o in televisione, l’utilizzo dei nuovi media e cioè di tutte quelle tecnologie che utilizzano i dati personali, ha richiesto questa attenzione in più. La logica quando noi parliamo di minori di età è sempre quella di dover prestare attenzione, la massima attenzione al processo di formazione dell’identità personale, mentre per un adulto questa formazione può dirsi conclusa o comunque si può continuare a realizzare in delle modalità che sicuramente sono più consapevoli, il minore è per antonomasia il soggetto la cui identità personale è in divenire, è informazione, è infatti un processo, parliamo di formazione, di costruzione dell’identità personale e il punto di vista che si adotta è che l’utilizzo degli strumenti digitali che i minori utilizzano sia ormai talmente diffuso nella quotidianità del minore che lo può utilizzare per svago, per studio. Pensiamo anche ai tempi pandemici a come il minore più che in altre in altre occasioni era perennemente di fronte ad uno schermo, questo utilizzo sempre più diffuso, pensiamo anche a quanto sempre di più i minori utilizzino gli strumenti tecnologici anche dei genitori o pensiamo a tutti gli strumenti che sono proprio nelle case, tutta una serie di strumenti dell’Internet of Things, tutta una serie di strumenti che i minori hanno a disposizione in modo semplicissimo. Però interagendo con tutti questi strumenti, inevitabilmente, l’utilizzo degli strumenti che sono connessi alla rete e quello che poi è il modo in cui i dati vengono trattati e quindi le risposte che la rete da al minore stesso che la utilizza sono tali da essere in grado di incidere sulla formazione dell’identità personale. Proprio rispetto a questo elemento è necessario prestare delle tutele nuove, un’attenzione nuova. Il tema dell’attenzione alla privacy in senso ampio del minore, comunque, non è completamente nuovo. Perché di privacy del minore si inizia a parlare addirittura nell’89, quindi in tempi abbastanza risalenti, ben prima della diffusione della rete per come la conosciamo oggi, però la Convenzione di New York che è la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989, poi ratificata in Italia nel 91, più o meno in quello stesso periodo, prevede che il minore debba essere tutelato da qualsiasi interferenza arbitraria o illegale nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua corrispondenza, in generale, nella sua privacy. Ricordiamoci che anni 80, anni 90 siamo ancora in una concezione di privacy come riservatezza, principalmente. Quindi il riconoscimento di questa tutela da qualsiasi interferenza arbitraria o illegale, quindi qualsiasi tipo di intromissione dall’esterno che può incidere appunto sulla sua vita privata, sulla sua famiglia, sul suo domicilio, sulla sua corrispondenza e addirittura va oltre perché dice e neppure di affronti illegali contro il suo onore e la sua reputazione, quindi in tutte le varie sfaccettature della riservatezza che abbiamo già descritto, e questa è la disposizione dell’articolo 16 della Convenzione di New York. In più, l’articolo 17, non parlando della riservatezza, però dice che il minore deve essere garantito, il fanciullo anzi dice la convenzione, deve essere garantito rispetto all’accesso ai media e alle tecnologie. Quindi vediamo come pure in un tempo in cui ancora non si parlava di privacy come trattamento dei dati personali distinto dalla riservatezza, abbiamo un’attenzione particolare nei confronti del minore: da un lato dal punto di vista della tutela della sua sfera più intima, dall’altro si cerca di incentivare l’accesso dei minori, dei fanciulli verso l’utilizzo delle tecnologie, del tipo di tecnologie che si potevano creare anche in prospettiva futura. E quindi questa doppia anima da un lato di tutela particolarmente mirata verso la riservatezza, dall’altro questo riconoscimento del minore come soggetto che deve poter accedere alle tecnologie perché è qualcosa che sicuramente può essere utile ai fini del suo sviluppo ai fini della sua crescita. Quindi in qualche modo viene veicolata dalla Convenzione di New York dell’89 un’immagine abbastanza moderna del minore come soggetto che poteva incidere sul proprio processo educativo, formativo, proprio anche attraverso l’utilizzo delle delle tecnologie.

    Da un punto di vista di diritto interno, in realtà di privacy del minore non abbiamo per lungo tempo nessun tipo di riferimento. Un riferimento era però presente già nel codice di procedura penale: in particolare l’articolo 114 del codice di procedura penale, in forza del quale si tutelava il minore attraverso un divieto di pubblicazione delle sue generalità e delle sue immagini. Quelli che oggi chiamiamo dati perché sicuramente le generalità di una persona o l’immagine di una persona rientrano nella nozione di dati. Quindi il divieto di pubblicare informazioni come generalità e immagini che ritraessero dei minori che fossero coinvolti in senso ampio da un procedimento di fronte all’autorità giudiziaria penale e quindi che fossero testimoni, persone offese, danneggiati dal reato, insomma qualsiasi tipo di situazione attorno alla quale potesse posizionarsi la figura di un minore rispetto ad un procedimento penale, quanto meno fino al momento in cui non avessero raggiunto questi minori la maggiore età. Quindi una tutela di fronte a insomma alla circolazione delle notizie riferite a determinati procedimenti penali che coinvolgessero dei minori. In un secondo momento il codice della privacy, quindi siamo nel 2003, estende questa stessa tutela che il codice di procedura penale prevedeva rispetto ai procedimenti penali, a qualsiasi altro procedimento di fronte all’autorità giudiziaria. Quindi a livello proprio di riservatezza del minore si ha questa particolare attenzione. Attenzione che tra l’altro era prevista anche all’interno dei codici deontologici di alcune categorie professionali, in particolare il Codice deontologico dell’attività giornalistica che è molto legato ovviamente ai temi dei procedimenti giudiziari. E nel codice deontologico dell’attività giornalistica che è del 96, già si faceva riferimento in particolare all’articolo 7, al fatto che il giornalista, dal punto di vista deontologico, non dovesse procedere alla pubblicazione dei nomi dei minori coinvolti in fatti di cronaca e comunque non soltanto i nomi, qualsiasi tipo di informazione che potesse permettere poi di ricondurre alla sua identificazione. Perché la logica che viene sancita, il principio che viene sancito in questo codice deontologico dell’attività giornalistica è che la riservatezza del minore deve essere tutelata anche quando ci sono delle ragioni che giustificano il diritto di cronaca. Quindi quando si svolge attività di cronaca, attività di critica, comunque bisogna prestare la massima attenzione al minore. Ovviamente tutte queste cose poi sono sì previste nel codice, però poi sono oggetto delle pronunce giurisprudenziali della Cassazione. La Suprema Corte ad esempio nel 2013 si esprime espressamente nel senso di richiedere che nell’ambito dell’attività giornalistica sia doveroso evitare qualsiasi riferimento che possa ledere la riservatezza dei minori. Quindi proprio questa attenzione che anche ovviamente a livello di giurisprudenza si ha sempre rispetto a queste categorie più vulnerabili di soggetti che appunto anche quando si esercita il diritto di cronaca, il diritto di critica è sempre necessario che siano destinatari di una specifica attenzione. A tutto ciò ovviamente non sta attenta soltanto la giurisprudenza ma anche il Garante privacy, in particolare con tutta una serie di provvedimenti, ne riporto uno del 2001, quindi in un tempo anche precedente al Codice della privacy ma successivo al Codice deontologico dell’attività giornalistica del 96, perché proprio già nel 2001, quindi in tempi non sospetti rispetto all’utilizzo, al riconoscimento del diritto alla protezione dei dati personali, comunque si faceva riferimento al diritto alla riservatezza dei minori anche di fronte alle notizie o a fatti di cronaca riportati che riguardano personaggi noti. Quindi anche prima della Cassazione, già il Garante riconosceva l’assoluta necessità di fare attenzione a tutelare i figli anche rispetto a fatti che riguardano soggetti noti nel caso di specie era figlio di un di un parlamentare, perché in tutti questi casi non si deve per far valere il diritto di critica, il diritto di cronaca, non si deve mai perciò affievolire quello che è il diritto alla privacy dei soggetti che sono coinvolti, a maggior ragione appunto se i soggetti in questione sono dei minori. Insomma, già prima del GDPR, per quanto non si facesse riferimento esplicito alla tutela di minori nel trattamento di dati personali, comunque si faceva particolare attenzione a garantire che il minore non subisse delle interferenze idonee ad incidere negativamente, ad impattare negativamente sulla formazione della sua identità personale.

    Passiamo quindi al GDPR. Già nei considerando del GDPR sono presenti una serie di riferimenti espliciti ai minori. In particolare, la logica che seguono i considerando è che quando si ha di fronte al trattamento dei dati personali dei minori di età, è necessario rendersi conto che si è di fronte ad un soggetto che è meno consapevole del significato della portata che il trattamento dei suoi dati può avere e dei rischi che quindi ciò può comportare, quindi è necessario prestare attenzione alla sua personalità. Il considerando 38, ad esempio, dice espressamente che i minori meritano una specifica protezione perché sono meno consapevoli dei rischi di Internet. Devono essere particolarmente tutelati da misure di salvaguardia che permettano l’esercizio dei loro diritti di fronte a qualsiasi attività di trattamento dei loro dati personali. In particolare si richiede attenzione di fronte a tutte quelle attività di trattamento dei dati personali che hanno finalità di marketing, oppure che svolgono attività di profilazione del minore, perché ovviamente profilare il minore al fine di rivolgergli, per esempio, delle determinate pubblicità mirate e personalizzate rispetto alle sue preferenze può incidere effettivamente sulla sua sfera giuridica soggettiva e quindi è necessaria una specifica attenzione. Ancora, il considerando 65 fa riferimento all’esercizio del diritto all’oblio e dedica un passaggio anche al minore perché addirittura: dice che il diritto all’oblio è particolarmente fondamentale che sia riconosciuto nei confronti del minore nel momento in cui acquista l’età del consenso digitale, perché potrebbe volerlo esercitare rispetto ad un consenso al trattamento dei dati personali prestato quando era al di sotto della soglia dell’età del consenso digitale e quindi era meno consapevole, sotto quell’età, e quindi una volta che compie l’età del consenso digitale deve riconfermare il consenso già prestato e altrimenti esercitare il diritto all’oblio rispetto ai dati che erano stati trattati, aveva consentito che venissero trattati prima del compimento dell’età per il consenso digitale. Ancora un altro considerando è il considerando 58 che fa riferimento in generale al principio di trasparenza e che quando descrive il principio di trasparenza dice rispetto ai minori è necessaria una particolare protezione, una protezione specifica, perché il minore è meno consapevole e quindi deve ricevere delle informazioni che riguardano il trattamento, che devono essere elaborate in un linguaggio particolarmente chiaro, particolarmente semplice, proprio perché devono essere dei termini che anche il minore possa facilmente comprendere. Insomma già nei considerando troviamo delle linee di attenzione alla figura del minore rispetto all’adulto. Poi vi è la norma che è espressamente dedicata al minore, è la norma di cui all’articolo 8. Già nella rubrica dell’articolo 8 del GDPR, la rubrica è il titolo della norma, dice: condizioni applicabili al consenso dei minori in relazione ai servizi della società dell’informazione. E poi ci sono i tre paragrafi dell’articolo 8 che ci descrivono la disciplina. Innanzitutto si fa riferimento appunto nella rubrica ai servizi della società dell’informazione. Diciamo che la definizione di servizi della società dell’informazione è contenuta in una direttiva del 2015, la 1535 del 2015 dice che i servizi della società dell’informazione sono tutti i servizi prestati a distanza, normalmente dietro una retribuzione e per via elettronica nei confronti di un destinatario dei servizi stessi. Diciamo che in generale sono un po’ tutte le attività che vengono svolte in rete che possono consentire l’accesso alle informazioni o ad attività di comunicazione. Quindi sono servizi della società dell’informazione: la posta elettronica, i social network, le banche dati, le newsletter. Vediamo quindi la norma perché si fa riferimento alle condizioni applicabili al loro consenso. Quindi, innanzitutto parliamo del consenso dei minori. Infatti il paragrafo 1 dice qualora si applichi l’articolo 6, paragrafo 1, lettera a, che è la condizione di liceità del trattamento che si fonda sulla prestazione del consenso. Quindi, innanzitutto, rispetto al minore è fondamentale che ci sia il suo consenso alla luce delle precisazioni che vengono fatte in questo articolo. Allora sempre il paragrafo 1 fa riferimento all’offerta diretta dei servizi della società dell’informazione. Questo riferimento all’offerta diretta vuol dire che la disciplina dell’articolo 8 non si applica a tutti i servizi della società dell’informazione, ma si applica soltanto a quelli che sono offerti in modo diretto ai minori. Quindi se sono il titolare di un trattamento ed esplicito che il servizio che offro è rivolto soltanto ai maggiorenni, allora non sono tenuto ad applicare le regole di quell’articolo 8. Ovviamente nella misura in cui, pur se io lo dovessi esplicitare, questa esplicitazione non venga poi smentita da altri elementi. Per esempio, il fatto che sia un tipo di servizio che per il contenuto che ha è evidente che verrà utilizzato anche da dei minori. Il problema è che il GDPR non ci dà delle precisazioni rispetto a come individuare quali siano gli elementi che possono smentire il fatto che il servizio sia offerto soltanto ai maggiorenni. Da questo punto di vista, quindi, possiamo fare riferimento un po’ al dato comparatistico, possiamo guardare all’esperienza statunitense che è un’esperienza in cui invece vengono espressamente delineati alcuni fattori, alcuni esempi, che sono utili a capire quando un certo servizio sia destinato o meno ai minori di età. E in particolare guardiamo alla disciplina in materia statunitense che è facile ricordare con l’acronimo COPPA che sta per Children’s Online Privacy Protection Act, che è la disciplina statunitense sulla privacy dei minori e che descrive una serie di fattori che ci permettono di capire se il servizio è offerto in modo diretto ai minori o meno, a prescindere appunto da quello che poi il titolare possa sostenere. E questi fattori sono per esempio il contenuto del sito, il tipo di attività che viene svolta su quel sito e il tipo di contenuti che sono fruibili su un certo sito, contenuti audio o contenuti visivi o il fatto che ci siano delle pubblicità che sono rivolte ad un target di bambini o comunque di soggetti minori, o il fatto che all’interno del sito, insomma del servizio, ci siano dei riferimenti a personaggi famosi tra i più piccoli o insomma celebrità che sono facilmente riconoscibili per i bambini o il fatto che ci siano dei modelli o dei soggetti a loro volta di minore età. Quindi,tutta una serie di esempi che effettivamente creano un contesto digitale a misura di bambino o comunque a misura di minore. Tutti questi fattori possono contribuire a ritenere che quel certo servizio sia effettivamente destinato, rivolto a dei soggetti minori. Questo è descritto nella disciplina statunitense, però sono dei parametri, delle linee che effettivamente poi facendo riferimento al dato comparatistico, anche il Garante privacy di qualsiasi Stato europeo o il giudice può sicuramente guardare a questi come esempi utili anche nella propria attività svolta a livello nazionale ed europeo. Siamo di fronte a tutta una serie di possibili contesti in cui effettivamente è necessario, è opportuno garantire queste figure che noi presumiamo essere più fragili, bisognose di tutela rispetto agli adulti, proprio perché su tutte queste piattaforme, su tutti questi siti, su tutti questi servizi che il minore si vede offerto, poi lui stesso può generare dei dati attraverso l’attività che poi realizza nella fruizione di questi servizi, pensiamo all’attività che realizza quando fruisce di un social network, durante un utilizzo di questi servizi, la fruizione di questi servizi genera dei dati personali. Questi dati personali possono poi essere utilizzati dal gestore di questo stesso sito per profilare la loro figura del minore e quindi poi presentare delle pubblicità che possono incidere sulla sua attività, sulla sua formazione.

    Il paragrafo 1 fa riferimento all’età di 16 anni, quindi 16 anni per il legislatore europeo è l’età soglia in qualche modo dopo la quale il minore può prestare il consenso. In realtà però, l’ultimo inciso del paragrafo 1 dice che gli Stati membri possono stabilire per legge un’età inferiore a tali fini, purché non inferiore a 13 anni. Quindi, con ciò il legislatore europeo permette agli Stati membri di stabilire al loro interno, quale sia l’età del consenso digitale, l’età del consenso digitale, che però è al massimo individuata in 16 anni o al minimo in 13 anni. E questo è un esempio in cui il regolamento, il GDPR, pur essendo un regolamento, non riesce nell’obiettivo di uniformazione, perché quello che è successo è che tutti gli Stati membri dell’Unione europea hanno scelto età diverse, in alcuni paesi hanno scelto 13 anni, in altri 14, in altri 15, in altri 16. Quindi abbiamo una disciplina che da questo punto di vista è leggermente diversa in base ai Paesi, l’Italia con il decreto legislativo 101 del 2018, che è il decreto legislativo non di recepimento del Regolamento, perché il Regolamento non si recepisce, ma il decreto legislativo che è servito a uniformare la normativa interna con il GDPR. L’articolo 2 quinquies del nuovo Codice, del Codice privacy rinnovato appunto dal decreto legislativo 101, prevede che nel nostro Paese l’età del consenso digitale sia 14 anni. Quindi vuol dire che il minore ultraquattordicenne potrà prestare il consenso. Quindi in Italia l’età del consenso digitale è quella di anni 14. Il minore ultraquattordicenne presta il consenso, il minore infraquattordicenne, quindi più piccolo di 14 anni (paragrafo 1), dice che il trattamento è lecito soltanto se e nella misura in cui il consenso è prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale (noi tutto l’articolo 8, laddove indica l’età di anni 16, lo dobbiamo rileggere come se al posto di 16 ci fosse scritto 14). Quindi il trattamento dei dati personali del minore è lecito ove il minore abbia almeno 14 anni, ove il minore abbia un’età inferiore a 14 anni il trattamento è lecito solo e nella misura in cui tale consenso sia prestato, autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale. Ovviamente le due situazioni richiedono una serie di considerazioni. Partiamo dal minore ultraquattordicenne, quindi il minore che presta il consenso in modo autonomo. Ovviamente questa l’abbiamo chiamata età del consenso digitale perché la regola che conosciamo tutti è che il minore in realtà, proprio perché minore non abbia una capacità d’agire, perché la capacità di agire, l’articolo 2 del Codice civile dice che viene raggiunta al raggiungimento della maggiore età. Quindi questo vuol dire che il consenso digitale si pone come strumento di esercizio della propria capacità in un’ottica di eccezione rispetto alla regola. Quindi la regola è che la capacità di agire si acquisisce, la capacità di agire è la capacità di incidere sulla propria sfera giuridica soggettiva, si acquisice ai 18 anni. Però questa prestazione del consenso si pone appunto come eccezione rispetto alla regola. E in realtà non ci sono grossi problemi nel considerare il fatto che ci siano delle eccezioni alla regola, perché da questo punto di vista il GDPR non ha introdotto una regola completamente nuova o diciamo inaspettata, perché nel codice civile, ma anche in leggi speciali, ci sono tutta una serie di riferimenti che riconoscono la necessità del minore di autodeterminarsi e quindi rispetto a specifiche situazioni conosciamo la possibilità che il minore incida in tutto ciò che riguarda un po’ le estrinsecazione della propria personalità. Quindi, insomma, ci sono già una serie di riferimenti nel nostro ordinamento che anticipano la capacità del minore di autodeterminarsi, quindi ecco da questo punto di vista non è una cosa totalmente nuova però appunto dobbiamo tenere conto del fatto che è una eccezione, un aspetto comunque particolare. Per quanto riguarda invece il minore infraquattordicenne, lì è necessaria una attenzione in più perché è vero che sicuramente non si vuole in nessun modo impedire l’accesso alle tecnologie che utilizzano i dati da parte dei minori infraquattordicenni però è necessario che questo incentivo all’utilizzo delle tecnologie o comunque questa anche inevitabilità dell’utilizzo di tecnologie da parte dei minori sia appunto realizzata in un modo che presti la massima attenzione al fatto che siamo di fronte a dei soggetti più vulnerabili; sempre nella logica per cui per il nostro legislatore fino ai 14 anni è necessario stare più attenti rispetto al processo di formazione dell’identità personale. Ecco quindi che l’articolo 8 dice che il trattamento dell’infraquattordicenne è lecito solo se e nella misura in cui è prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale. Allora innanzitutto con titolare della responsabilità genitoriale non includiamo soltanto il genitore ma chiunque svolga la responsabilità genitoriale per il minore, quindi anche per esempio il tutore, quindi va inteso in un senso ampio. Ci concentriamo sui verbi prestato e o autorizzato, perché sembrano sinonimi, però vanno interpretati in un modo diverso. Quindi prestato ci dice l’ipotesi in cui il rappresentante legale del genitore manifesta egli stesso una volontà positiva al trattamento dei dati. Quindi è come in questo caso della prestazione il genitore o comunque il tutore, colui che esercita la responsabilità genitoriale, in qualche modo si va a sostituire, in questo caso nell’attività di prestazione il consenso quindi è direttamente l’esercente la responsabilità genitoriale che presta il consenso per il minore. Invece autorizzato lo dobbiamo leggere in un modo diverso, autorizzato è quindi la situazione in cui il minore presta il proprio consenso direttamente, però ai fini del trattamento è necessario che il consenso del minore venga integrato o comunque confermato dall’esercente la responsabilità genitoriale proprio perché è una sorta di autorizzazione rispetto al consenso che il minore ha prestato in un’iniziale diciamo autonomia. Ovviamente qual è il problema, che tutta questa bella regola si scontra un po’ con la realtà, perché nella realtà è facile immaginare che un minore che utilizza autonomamente gli strumenti digitali sia in grado di aggirare il consenso o comunque la partecipazione del genitore, perché il minore conferma magari che il genitore è d’accordo semplicemente al posto del genitore, il genitore nemmeno sa di questa prestazione del consenso e non ha nemmeno modo di controllarlo, quindi diciamo la questione che si pone è come assicurarsi che questa regola rispetto all’infraquattordicenne venga rispettata.

    Qui subentra il principio di accountability del titolare. È il titolare ad essere responsabile per fare di tutto affinché effettivamente vengano rispettati i requisiti della norma. Come fa a fare di tutto, ovviamente come al solito alla luce delle tecnologie a disposizione, dovrà realizzare, dovrà predisporre delle misure necessarie idonee a garantire che la regola venga effettivamente applicata. Quindi c’è proprio l’obbligo del titolare seppure non sia scritto espressamente nell’articolo 8 però in virtù del principio dell’accountability, di responsabilizzazione del titolare, riconosciamo, individuiamo questo dovere del titolare di adoperarsi al meglio in ogni modo ragionevole, quindi sempre anche nel rispetto della proporzionalità, affinché sia possibile verificare che il consenso sia stato prestato o autorizzato da un esercente la responsabilità genitoriale, quindi sostanzialmente che il minore non abbia prestato il consenso senza che il genitore ne sia a conoscenza. Anche qui, piccolo problema: ricaviamo questo dovere del titolare, ma al titolare non vengono date delle linee per rispettare o comunque per sapere in modo definitivo come è giusto adoperarsi. E quindi anche qui, proprio perché il GDPR su questo è lacunoso, possiamo ricorrere al dato comparatistico, riguardiamo di nuovo alla disciplina statunitense che anche rispetto a questo è più completa. Abbiamo tutta una serie di esempi che ritroviamo nella disciplina degli Stati Uniti. Per esempio il titolare può adoperarsi fornendo dei moduli da compilare, quindi il genitore deve compilare un modulo, deve riempire delle caselle da cui effettivamente poi fornisce in modo diretto il consenso al trattamento dei dati da inviare magari via mail o da compilare in un form al momento della registrazione su un certo servizio. Un altro esempio può essere che il genitore debba dare conferma attraverso l’indicazione delle generalità di una carta di credito, oppure che debba fare un collegamento web, quindi una videochiamata attraverso la quale presti effettivamente il consenso. O ancora vengono applicati degli strumenti di riconoscimento facciale attraverso la somministrazione, l’upload di una fotografia. Oppure il genitore può caricare un documento, la fotocopia del documento. Oppure ancora rispondere a specifiche domande. Insomma, tutta una serie di possibilità attraverso cui il titolare può far sì che sia il più vero possibile, il più quasi sicuro possibile che il genitore sia effettivamente partecipe alla prestazione di questo consenso. Rimanendo sul GDPR, quello che possiamo dire è che sicuramente qualsiasi richiesta venga fatta al titolare che risponde del principio di responsabilizzazione, però d’altra parte facciamo sempre valere anche il principio di proporzionalità, quindi il titolare sarà chiamato a predisporre le misure più idonee possibili però sempre sempre all’interno di un approccio proporzionato. Quindi in base a quelli che sono i rischi per il minore che il trattamento porta con sé, dovrà predisporre delle misure più o meno elastiche. Quindi se si tratta di una situazione a basso rischio, magari una conferma via e-mail o di compilazione del form della registrazione è più che sufficiente. Invece se si tratta di attività di trattamento ad alto rischio, allora magari può essere richiesta quella misura più stringente, più complicata, che dia maggiori certezze del fatto che il genitore abbia partecipato. Quindi sempre un approccio al rischio, che in base alla valutazione del rischio che il minore in questo caso corre rispetto al trattamento dei suoi dati, ricordiamoci sempre che la misura della gravità del rischio la stabilisce il titolare stesso, poi però sarà responsabile della sua valutazione nel caso in cui non sia corretta, e poi predisporre le misure che alla luce di queste considerazioni vengono considerate più idonee. Ovviamente i problemi permangono perché resta il fatto che se il metodo di verifica del consenso genitore è troppo blando, allora il minore magari riesce ad aggirarlo, così come se è troppo stringente pensiamo a quelle riguardanti il caricamento della carta di credito, che è un metodo particolarmente difficile per il minore, magari da aggirare, allora lì il problema che si pone è che possano essere magari limitate le possibilità del minore di accedere al servizio perché un genitore sicuramente è più restio dal lasciare i dati della sua carta di credito su un certo sito che poi magari utilizza il minore stesso. Quindi da un lato il rischio di aggiramento del minore, dall’altro il rischio che il consenso non venga prestato, però un bilanciamento poi di volta in volta da fare in relazione al caso concreto perché la logica per quanto poi ci sia questo rischio è comunque che bisogna sempre bilanciare da un lato il diritto del minore ad accedere ai servizi digitali, dall’altro però l’esigenza della sua sicurezza e in questo ovviamente il ruolo del titolare della responsabilità genitoriale è fondamentale. Peraltro teniamo comunque conto del fatto che questa regola riguarda gli infraquattordicenni, quindi comunque dal compimento del 14º anno poi il minore può intervenire direttamente.

    Peraltro anche rispetto al modo in cui intervengono i genitori si pongono delle questioni, in particolare i genitori devono essere per forza d’accordo? O basta la volontà di uno dei due? Per esempio questo è un altro tema che si pone in realtà ben prima del discorso specifico sul trattamento dei dati personali perché è un tema che si è posto in generale rispetto alla pubblicazione delle immagini dei minori. E su questo la giurisprudenza più risalente era effettivamente più incline a riconoscere il fatto che bastasse la volontà di uno. Un esempio antecedente ovviamente le dinamiche social è quello trattato da una Cassazione del 2006, in particolare la 21172 che era riferito a una domanda di risarcimento dei danni che la madre di un minore avanzava nei confronti dell’altro genitore perché questo genitore, personaggio noto, aveva portato i figli con sé in spiaggia, con la nuova compagna e le fotografie della giornata in spiaggia erano state pubblicate da dei giornali. La nuova compagna in particolare era un personaggio televisivo e in queste fotografie risultava in topless. La madre agisse per risarcimento dei danni provocati nei confronti della propria dignità e della dignità del minore che risultava essere state lese da questa pubblicazione. La Cassazione invece diceva che la partecipazione, la volontà del genitore che aveva permesso che queste foto venissero scattate era sufficiente ad integrare la volontà necessaria alla pubblicazione anche delle immagini dei minori in queste fotografie e che quindi la domanda di risarcimento del danno che la madre aveva avanzato andava rigettata. Un secondo esempio un po’ più recente e che si va più diffondendo è quello per cui si richiede la volontà congiunta dei due genitori. Da questo punro di vista citiamo una ordinanza del Tribunale di Mantova del 2017, che è stata particolarmente studiata e commentata perché è stata una ordinanza abbastanza rilevante, perché qui, per la prima volta, c’è questo cambio di passo un po’ più netto della giurisprudenza, che poi è stato seguito anche da sentenze successive di altri tribunali. In questo caso invece entrando in gioco lo specifico aspetto dei social network (che invece nel caso di prima non c’era perché abbiamo detto che era del 2006), e con riferimento specifico ai social network, invece, la Corte, il giudice mantovano si è pronunciato nel senso di ritenere fondamentale la partecipazione di entrambi i genitori. Il caso qui era quello di genitori tra loro separati, ma con un affido condiviso dei figli minori e nell’accordo di separazione addirittura i genitori avevano scritto di non ammettere la pubblicazione delle foto dei figli su Facebook o comunque i social network. La madre in particolare, si impegnava a non farlo, tuttavia non rispettava questo impegno che era stato preso nell’accordo di separazione e quindi non solo continuava a pubblicare foto dei figli su Facebook, ma nemmeno aveva rimosso quelle che aveva già postato come con il marito si erano detti. Quindi il marito, il padre dei bambini d,ei figli minori, si rivolgeva al giudice chiedendo di inibire questa attività che la moglie continuava a porre in essere e a obbligare alla rimozione delle immagini già pubblicate. Il tribunale dà pienamente ragione al padre. Conferma questa richiesta del padre e il tribunale mantovano in questa ordinanza appunto del 2017 afferma proprio l’imprescindibilità del consenso di entrambi per la pubblicazione delle foto, perché la logica è che la circolazione delle foto dei minori su internet, in particolare i network, è una pubblicazione che non è fine a se stessa, perché nel momento in cui ho posto la foto di mio figlio minore non la sto pubblicando su internet e poi ho la certezza che la posso vedere solo io. Ma il giudice afferma che nel funzionamento dei social network, nel funzionamento della rete è implicita la pericolosità, è implicito il rischio per il minore dato dal fatto che la circolazione dell’immagine poi è incontrollabile. Un’immagine, una volta che viene postata effettivamente, poi può circolare, può giungere anche a dei soggetti sconosciuti che la possono utilizzare in qualsiasi modo. Quindi la pubblicazione dell’immagine del minore è in sé potenzialmente lesiva, potenzialmente rischiosa, potenzialmente pregiudizievole e quindi la soglia di accettabilità della pubblicazione richiede il consenso di entrambi, quindi senza il consenso di entrambi non è possibile, perché il rischio è talmente elevato che è più opportuno evitare questa combinazione.

    Altro esempio, Tribunale di Rieti che è di poco successivo perché del 2019 però questa è una sentenza e non ordinanza e qui siamo di fronte ad una situazione invece di genitori separati in cui il padre aveva una relazione con un’altra donna. Questa donna stessa postava le foto dei figli del compagno, figli minori su Facebook e su determinati social e la madre di questi bambini interveniva per richiedere la cancellazione. E anche il giudice di Rieti ha fatto riferimento allo stesso identico principio sancito dal giudice mantovano due anni prima, perché proprio si sancisce la necessità di questa attività condivisa da parte dei genitori perché la diffusione e la circolazione delle immagini sui social network va considerata potenzialmente lesiva. Questa tendenza rientra perfettamente in quello che è in generale la disciplina del rapporto tra genitori e figli, perché il principio che regola l’attività dei genitori nei confronti dei figli, guardiamo gli articoli 315, 315 bis del codice civile, ci dicono proprio che i genitori devono sempre realizzare nei confronti dei figli attività che siano volte a rispondere a quelle che sono le inclinazioni dei figli, le volontà dei figli. La volontà del figlio deve essere presa in considerazione. Quindi anche la volontà del figlio capace di discernimento può essere considerato dal giudice anche nel caso di disaccordo dell’altro genitore. Però sono tutte situazioni che vanno viste nel caso concreto, ciò che occorre è che di fronte allo scontro tra l’esercente la responsabilità genitoriale interviene il giudice e il giudice quando deve decidere rispetto a delle vicende dei fatti che riguardano un minore deve sempre valutare il principio che è riconosciuto a livello ONU del “best interest of the child“. La logica è sempre quella di prendere una decisione che nel caso concreto sia in grado di soddisfare i migliori interessi del minore i best interest of the child. Un esempio in tal senso,sempre di merito, è una decisione del giudice romano in questo caso, in cui c’era uno scontro tra madre e figlio, quindi non tra i genitori ma tra madre e figlio, perché il figlio si scontrava con la madre in quanto questa pubblicava continuamente immagini su Facebook del figlio minore, non solo pubblicava le immagini, ma pubblicava anche post quindi per iscritto in cui descriveva che il figlio aveva determinati problemi e aveva determinate questioni per cui non stava bene e pubblicava tutto ciò su Facebook. Il figlio si rivolgeva quindi al giudice e il giudice riteneva effettivamente di dover intervenire rispetto a questo comportamento della madre perché andava a considerare il comportamento della madre come tale da incidere in modo potenzialmente irrimediabile sul rapporto tra madre e figlio. In particolare, il figlio chiedeva anche che gli venisse consentito di andare a studiare all’estero per allontanarsi dalla madre per tutto il malessere che gli aveva provocato questo suo attivismo sui social e il giudice effettivamente accoglieva la richiesta del figlio sostenendo che il rapporto madre figlio era talmente compromesso dall’utilizzo dei social da parte della madre che solo attraverso l’allontanamento magari si sarebbe potuto ristabilire. Insomma il ruolo del giudice da questo punto di vista è molto importante e sempre deve andare a verificare le situazioni del caso concreto.

    Chiudendo sul tema del consenso, il considerando sul diritto all’oblio torna a questo punto del discorso perché rispetto al minore infraquattordicenne il cui consenso viene prestato o autorizzato dal genitore, dobbiamo tenere conto che al compimento dell’età del consenso digitale il minore deve avere la possibilità di confermare quel consenso o altrimenti esercitare il diritto all’oblio rispetto al consenso precedentemente prestato. Proprio perché la logica è che una volta compiuta l’età del consenso digitale, deve essere lui personalmente a prendere una decisione rispetto alla liceità del trattamento dei dati personali. Infatti tornando all’articolo 8, al testo dell’articolo 8, il riferimento è che il trattamento è lecito, le condizioni sono proprio quelle di liceità che richiedono la partecipazione diretta dell’interessato una volta che giunge all’età del consenso digitale.

    Ultimo aspetto, il paragrafo 3 dell’articolo 8 che ci dice che il paragrafo 1 (quindi quello riferito alla prestazione, alla liceità del trattamento) non pregiudica le disposizioni generali di diritto dei contratti e questo è un aspetto importante perché il porre un’età del consenso digitale sotto la maggiore età è qualcosa che si pone come eccezione rispetto alla regola e la conferma che sia un’eccezione in realtà, la da lo stesso paragrafo 3 proprio perché dice che questa previsione dell’articolo 8 non incide, non intacca sulle regole, sulle norme degli Stati membri. Quindi tutte le regole che gli Stati membri abbiano rispetto alla validità, all’efficacia di un contratto, non sono minimamente intaccate da questa previsione. Quindi qui cosa succede, succede che poi di volta in volta bisognerà far interagire le norme di diritto dei contratti con le norme sulla protezione dei dati personali, laddove le due debbano essere applicate in un medesimo contesto, perché potremmo essere di fronte ad una situazione in cui il minore ha l’età del consenso digitale, perché magari a 15 anni, però, non avendo raggiunto la maggiore età, non può stipulare un contratto valido. Quindi potremmo essere di fronte ad una situazione in cui il trattamento dei dati personali è lecito, però il contratto a cui il trattamento afferisce è un contratto annullabile perché il rimedio previsto per il contratto stipulato da minori di età è l’annullabilità. Quindi, di fronte all’eventuale annullamento, perché l’annullamento non è automatico, l’annullamento deve essere chiesto dall’interessato entro cinque anni da quando è stipulato il contratto, siamo di fronte a quelle situazioni in cui effettivamente potremmo avere un contratto annullabile, ma un consenso validamente prestato, quindi un trattamento di dati personali è lecito. Ecco, in questi casi l’interazione fra le due discipline ovviamente sarà tale che, in caso di annullamento del contratto, appunto perché stipulato dal minore di età, nell’eventualità di annullamento del contratto allora automaticamente dovrà cessare anche il trattamento di dati personali che da quel contratto dipende, proprio perché non toccandosi le regole sulla esecuzione, l’efficacia e la validità dei contratti stipulati dai minori, sarà necessario poi di volta in volta far interagire le due discipline.

    Diritto dei dati – I diritti dell’interessato

    I diritti dell’interessato: accesso ai dati, rettifica dei dati, cancellazione dei dati, oblio, limitazione del trattamento, portabilità dei dati, opposizione al trattamento.

    Passiamo a vedere quali sono i diritti dell’interessato che fanno un po’ da contraltare rispetto a quelli che sono gli obblighi dei titolari del trattamento proprio perché tutti i vari obblighi poi vanno a specificarsi nei diversi diritti che vengono riconosciuti, guardiamo agli articoli da 15 in poi del GDPR e in particolare il diritto di accesso ai dati personali, il diritto di rettifica, di integrazione, di cancellazione e che sono diritti un po’ più noti anche nella disciplina della privacy precedente e poi in particolare il diritto all’oblio e il diritto alla portabilità dei dati sono invece dei diritti di introduzione recente perché sono del GDPR stesso. Nel complesso quello che ci interessa è avere chiaro che tutti questi diritti in modo appunto complessivo vanno a rendere esercitabile in concreto il più ampio diritto all’autodeterminazione per quanto riguarda il controllo, il trattamento, la protezione dei dati personali, quindi in generale parliamo di autodeterminazione rispetto alle proprie informazioni. Iniziamo con l’accesso, l’accesso di cui all’articolo 15 del GDPR. L’accesso come già dal nome possiamo facilmente intuire è volto ad accedere, a reperire, a ottenere delle informazioni. Informazioni rispetto alle finalità del trattamento, alle categorie di dati che vengono trattati (sono dati comuni o se sono i dati particolari dell’articolo nove), informazioni rispetto al soggetto titolare del trattamento, al periodo per cui è previsto il trattamento dei dati o informazioni rispetto ai propri diritti. Banalmente un interessato che non conosce quali sono i propri diritti perché non conosce la normativa ha diritto di accedere a queste informazioni, di chiederle al titolare, o ancora importante il diritto a conoscere se delle proprie informazioni saranno utilizzate per attività interamente automatizzate, ovvero i processi decisionali automatizzati. La logica è sempre quella di garantire che il soggetto interessato al trattamento dei propri dati possa nel tempo mantenere un controllo, anche dopo che il trattamento è iniziato e quindi, per esempio, verificare se effettivamente le condizioni di liceità del trattamento perdurano, se il soggetto titolare sta rispettando le finalità che aveva dichiarato e così via.

    Proprio perché riguarda il mantenimento del controllo rispetto alle proprie informazioni, il diritto all’accesso è un diritto che possiamo esercitare sempre. Quindi non è possibile un rapporto tra titolare e interessato in cui il diritto d’accesso sia subordinato, ad esempio, ad un certo tempo. Posso chiedere l’accesso in qualsiasi momento per cui perduri il trattamento. Questa logica è fondamentale proprio perché in ogni momento si ha diritto di conoscere come si sta svolgendo questo rapporto che riguarda il trattamento dei nostri dati e poi perché l’accesso tra tutti i diritti è un po’ il diritto che viene esercitato in apertura, l’accesso in qualche modo è strumentale all’esercizio dei diritti successivi, perché se voglio esercitare il diritto alla cancellazione magari prima esercito un accesso per conoscere meglio le dinamiche e poi valuto che effettivamente voglio procedere alla cancellazione di dati. Quindi nessun vincolo temporale. E poi l’altra cosa importante è che nel momento in cui lo esercito, il titolare mi deve rispondere innanzitutto entro un tempo ragionevole quindi così come io interessato non ho limiti di tempo per fare la richiesta, dall’altra parte invece il titolare ha dei limiti di tempo per rispondere alla mia richiesta. Si dice entro un termine ragionevole, ovviamente in considerazione delle tecnologie a disposizione del titolare e delle sue esigenze organizzative, però deve farlo entro un tempo appunto ragionevole, al più tardi entro un mese dalla richiesta. Questo periodo di un mese può essere anche prorogato fino a un massimo di due mesi, purché il titolare, quindi questo è fondamentale, purché il titolare comunichi all’interessato il ritardo, quindi la necessità di questa proroga che deve essere effettivamente necessaria al titolare e quali sono le ragioni che la rendono necessaria, quindi deve essere trasparente al massimo rispetto al motivo per cui questa risposta esiterà ad essere fornita all’interessato proprio perché la regola sarebbe che deve farlo entro un tempo ragionevole e senza ingiustificato ritardo. Per quanto riguarda poi la forma di questa risposta, la forma di questa risposta è libera, le informazioni che il titolare fornirà all’interessato possono essere fornite in qualunque forma, quindi sia cartacea, telematica o che sia in formato audio o che sia in formato video, purché la forma in questione sia intellegibile. Inoltre, oltre al limite diciamo della intellegibilità, l’altra caratteristica fondamentale delle informazioni che vengono fornite a seguito di accesso è che devono essere fornite in modo completo e chiaro.

    Di regola, l’esercizio dell’accesso non prevede un pagamento. Per evitare però che un interessato possa abusare del diritto che ha di accedere alle informazioni, allora di fronte ad una richiesta reiterata delle informazioni, il titolare può richiedere, può addebitare un contributo di spese all’interessato, e sarà un contributo che ovviamente dovrà essere parametrato in base ai costi amministrativi necessari all’adempimento della richiesta e quindi per giudicare che questi costi richiesti siano corrispondenti a quanto effettivamente ammonta l’onere amministrativo in questione, bisogna anche documentare queste spese. Quindi di regola non si paga nulla però, purché siano documentati e di fronte a richieste reiterate è possibile addebitare il costo dell’accesso. Ultimo aspetto legato all’accesso è che l’esercizio dell’accesso è subordinato dall’articolo 15 alla identificazione dell’interessato, quindi il titolare deve poter identificare il soggetto interessato. Oltre a dare le proprie generalità per il resto l’interessato non deve addurre nessun tipo di motivazione, quindi qualunque sia il motivo per cui sto esercitando l’accesso non devo giustificarmi con il titolare, lo esercito senza dover motivare il perché della mia richiesta. Se ponesse degli ostacoli, se ponesse limitazioni rispetto all’esercizio dei suoi diritti allora andrebbe contro a quel principio di correttezza già trattato. Quindi qui ritroviamo un’altra concretizzazione del principio della correttezza che è proprio quella da parte del titolare di permettere all’interessato di esercitare nel modo più semplice possibile i suoi diritti. Le stesse regole legate ai tempi di esercizio del diritto e di risposta da parte del titolare, valgono per l’accesso e valgono anche per i diritti di integrazione, di rettifica (articolo 16 del GDPR). Questi diritti sono dei diritti che in qualche modo vanno a tutelare in modo più specifico, più mirato, il diritto all’identità personale dell’interessato perché la rettifica e l’integrazione sono dei diritti che permettono attraverso il loro esercizio di contestualizzare, di completare, di aggiornare le informazioni che compongono la rappresentazione verso l’esterno della persona e quindi in questo modo rendere questa rappresentazione pienamente aderente alla realtà attuale di quel soggetto e quindi a tutelarne l’identità personale. Perché la logica è che se rispetto alla mia identità personale, la rappresentazione che si fa della stessa è una rappresentazione che si basa su informazioni incomplete o informazioni non aggiornate, allora la rappresentazione che esce fuori della mia persona è una rappresentazione falsata, non corretta e quindi lesiva della mia identità personale. Attraverso l’esercizio del diritto alla rettifica e all’integrazione si interviene proprio da questo punto di vista e quindi si ricostituisce con il maggior grado possibile di accuratezza la mia rappresentazione perché andiamo a completare tutte le informazioni che non dovessero essere aderenti. Quello che dobbiamo sempre pensare è che tutto ciò che è incompleto in questo tipo di contesto, inesatto, poco chiaro, rende l’informazione in qualche modo falsata e in generale la logica è sempre quella per cui l’informazione falsata può divenire in determinati modi lesiva della nostra identità personale.

    In modo complementare a questi diritti di accesso, rettifica, integrazione è la cancellazione e l’oblio, siamo nell’articolo 17. Se io interessato mi rendo conto che sono di fronte a determinati motivi che l’articolo 17 mi elenca, posso chiedere la cancellazione dei dati che mi riguardano. Alcuni esempi sono per esempio il fatto che quei dati non siano necessari alle finalità che il titolare sta perseguendo e qui stiamo concretizzando per esempio il principio di minimizzazione, oppure i dati che ho fornito non sono necessari davvero alle finalità che il titolare persegue, quindi li cancello perché non li servono. Ancora, il trattamento ha come condizione di liceità il mio consenso, io revoco il mio consenso, quindi viene meno la condizione di liceità, chiedo la cancellazione. Oppure scopro che il trattamento dei dati si sta realizzando in modo illecito e quindi chiedo la cancellazione; tutta una serie di motivi per cui posso chiedere la cancellazione. Però proprio perché ci sono delle situazioni in cui mi devo trovare, riguardo alla cancellazione non siamo di fronte ad un diritto esercitabile senza motivarlo, proprio perché è necessario ritrovarsi in determinate situazioni che appunto l’articolo 17 ci elenca. Peraltro anche quando la nostra richiesta è fondata, la cancellazione, nel senso di distruzione di dati, non è l’unico modo in cui si può soddisfare la richiesta dell’interessato perché sicuramente la distruzione dei dati che sono nella disponibilità del titolare è un primo modo, però sono idonei a soddisfare il diritto di cancellazione anche altre attività, in particolare la anonimizzazione dei dati, qualsiasi attività che renda impossibile reidentificare il soggetto. Quindi cancellare questi dati non è l’unica cosa che il titolare può fare, ma lo stesso scopo si può raggiungere anche rendendo anonimi questi dati con le tecnologie a disposizione, purché appunto sia fatto in un modo tale da rendere impossibile che i dati anonimi che restano, permettano di reidentificare il soggetto a cui si riferivano. Tant’è che mentre la anonimizzazione è possibile perché caratteristica della anonimizzazione è proprio questa scissione in qualche modo definitiva tra informazione e persone a cui si riferiscono, d’altra parte lo stesso scopo non si potrebbe raggiungere con la pseudonimizzazione, quindi con l’attribuzione ai dati di uno pseudonimo, pseudonimizzazione dei dati. Proprio perché nella pseudonimizzazione, rispetto alla anonimizzazione dei dati, non c’è questo elemento di definitività, perché se attribuisco uno pseudonimo rispetto ad un dato, in un secondo momento potrei di nuovo identificare il soggetto, invece se lo rendo anonimo automaticamente non posso reidentificare la persona a cui si riferivano. Quindi la cancellazione si può realizzare in tutti i modi con cui rendo irreversibile il collegamento tra un dato, un’informazione e una persona. Ovviamente anche qui teniamo sempre conto che a tutela del titolare vige sempre il principio di proporzionalità, per cui tutte queste attività si possono pretendere nella misura in cui il titolare abbia poi la possibilità a livello di costi, di tecnologie e di organizzazione propria, per soddisfare la richiesta. Ovviamente nel caso in cui il titolare aveva anche trasmesso a dei terzi i nostri dati di cui chiediamo la cancellazione, quindi rispetto ai quali esercitiamo il diritto alla cancellazione, il titolare dovrà rivolgere anche a questi terzi l’indicazione rispetto alle attività che ha svolto per la cancellazione e quindi questi terzi che avevano ricevuto i nostri dati saranno tenuti a fare altrettanto.

    Nella pratica quello che succede è che il soggetto interessato spesso e volentieri esercita il diritto alla cancellazione principalmente in casi in cui si rende conto che il trattamento viene realizzato in assenza di un fondamento, in assenza di una condizione di liceità. In tutti questi casi il titolare può effettivamente rispondere anche in modo diverso rispetto all’accoglimento della richiesta, ad esempio il titolare potrebbe non accogliere la mia richiesta e dimostrare che il fondamento giustificativo del trattamento sussiste perché siamo nelle condizioni di liceità dell’articolo sei, e allora potrebbe respingere la nostra richiesta e quindi continuare il trattamento, verificando che effettivamente la richiesta non sia fondata.

    L’articolo 17 fa anche riferimento al diritto all’oblio. Il diritto all’oblio è un diritto di nuova introduzione nel GDPR. È un diritto che conosciamo già da prima però se ne parla per la prima volta a livello normativo nel contesto del trattamento dei dati. Quindi noi conoscevamo già il diritto all’oblio con riferimento alla tutela di quella che oggi chiamiamo riservatezza, la privacy intesa come riservatezza. Con il GDPR a livello normativo entra in gioco l’oblio anche rispetto al trattamento dei dati. Sottolineo a livello normativo perché, come vi dico tra poco, la giurisprudenza aveva iniziato già a toccare questo aspetto. Allora in generale mi pare che lo avessimo già accennato nella prima lezione, il diritto all’oblio è il diritto ad essere dimenticati. Quindi il diritto di una persona a chiedere che determinate notizie sul suo conto, trascorso un certo periodo di tempo, vengano cancellate. Perché? Perché ormai risultano dimenticate o comunque sconosciute, ignote alla generalità dei consociati e quindi non c’è più interesse a venirne a conoscenza. Quindi anche delle notizie che tempo addietro erano state legittimamente divulgate, erano state pubblicate in un certo momento storico in modo del tutto legittimo, tempo dopo si può richiedere che vengano cancellate proprio perché non rivestono più un interesse, non hanno più interesse ad essere conosciute. Ed essere conosciute vuol dire ad essere divulgate attraverso i circuiti dell’informazione che un tempo erano soltanto i giornali o al massimo la televisione, ormai anche e quasi principalmente su internet. Quindi il criterio principale, sicuramente per verificare la fondatezza della richiesta di esercitare il diritto all’oblio è il trascorrere del tempo. Quindi è necessario che sia trascorso un tempo tale che abbia fatto perdere rilevanza alla notizia. A meno che poi non siano nel frattempo emersi dei fatti nuovi o comunque determinate dinamiche che in qualche modo riescono ad integrare il quadro che si era delimitato anni addietro, tempo addietro. Però a meno che non ci siano questi fatti nuovi o comunque questi aspetti che un tempo non erano noti allora diciamo effettivamente passato un certo periodo di tempo si può dire che la notizia non sia più di interesse per la collettività. 

    Un altro diritto è quello alla limitazione del trattamento. Il diritto alla limitazione del trattamento è previsto dall’articolo 18 del GDPR. Ed è un diritto che può essere esercitato soltanto nei casi indicati dall’articolo 18 che sono quattro. Sono quindi delle ipotesi tassative. Vuol dire che non sono degli esempi di situazioni in cui può essere esercitato, ma sono proprio le uniche ipotesi in cui si può esercitare la limitazione. La prima ipotesi è quella in cui l’interessato contesta l’esattezza dei dati, quindi sostiene che i dati non siano esatti, i dati sul suo conto, e quindi per il periodo necessario a verificare l’esattezza o meno di questi dati, il titolare per rispondere al diritto di limitazione, sospende – limitazione nel senso di sospensione in questo caso – sospende il trattamento. Una seconda ipotesi, quella alla lettera b dell’articolo 18, è quella situazione in cui il trattamento risulti essere illecito, però l’interessato chiede al titolare di limitare l’utilizzo dei dati ma comunque di non interrompere definitivamente il trattamento. Quindi evidentemente sono situazioni in cui il trattamento si rivela essere illecito però l’interessato ha comunque dei motivi per preferire che il trattamento continui seppur in modo limitato e quindi chiede la limitazione ma anche la prosecuzione del trattamento stesso. Una terza ipotesi, lettera c dell’articolo 18, è quella in cui i dati non sono più necessari al titolare, però di nuovo l’interessato chiede che ci sia una limitazione del trattamento alla sola conservazione dei dati perché evidentemente questa conservazione gli serve per l’accertamento o l’esercizio dei suoi diritti in sede giudiziaria. Quindi se magari quei dati li devo utilizzare perché mi servono in sede giudiziaria allora chiedo che seppure il titolare non abbia più motivo per trattare i dati, comunque limiti il trattamento alla sola conservazione e li conservi così che io li possa utilizzare in sede giudiziaria. Poi ultima ipotesi, quella della lettera d, in cui l’interessato si oppone al trattamento che è necessario per un legittimo interesse del titolare e quindi, in questo caso (come nel primo, quello della lettera a), il titolare limiterà il trattamento nel periodo che è necessario a verificare che il suo legittimo interesse prevale sull’interesse del soggetto i cui dati personali vengono trattati. Ora da questa descrizione si capisce che le ipotesi più simili tra loro sono la prima e l’ultima e le due in mezzo. Perché la prima e l’ultima si coglie la loro natura cautelare. La logica è impedire la prosecuzione del trattamento per il periodo necessario all’accertamento di una situazione che è invece incerta: prima ipotesi quella dell’esattezza dei dati o meno, secondo ipotesi quella della necessarietà o meno del trattamento per legittimo interesse. E quindi per il periodo di tempo, per questo si parla di natura cautelare, per il periodo di tempo necessario all’accertamento di queste situazioni si limita il trattamento alla sola conservazione. Poi nel caso in cui si rileva che i dati sono esatti o il legittimo interesse del titolare prevale su quello dell’interessato, allora il titolare ne darà comunicazione all’interessato e riprenderà il trattamento così come lo svolgeva prima. Invece, nel caso in cui la verifica rispetto all’esattezza, rispetto alla prevalenza dell’interesse, dia ragione all’interessato allora poi l’interessato potrà chiedere la cancellazione dei dati o potrà insomma decidere come procedere. Nei casi invece delle lettere b e c, e quindi quelle riguardanti le richieste dirette di limitazione da parte del dell’interessato (nel primo caso abbiamo detto anche se il trattamento è lecito e nel secondo caso abbiamo detto quando i dati serve che siano conservati perché il soggetto interessato li utilizzi in sede giudiziaria), allora in questi casi finché perdura la limitazione, i dati saranno comunque trattati dal titolare, quando poi finisce questo periodo, allora si procederà alla cancellazione di questi dati. Nel primo caso, perché il trattamento è illecito, quindi comunque l’illiceità del trattamento comporta la cancellazione, nel secondo caso perché il trattamento non è più necessario e quindi si procede alla cancellazione. Ciò che rileva però è che comunque ci si debba trovare in una di queste quattro ipotesi, non è possibile chiedere la limitazione del trattamento per ipotesi diverse da queste quattro. Quindi l’interessato potrà richiederlo in queste quattro ipotesi che però non deve descrivere. Quindi la richiesta deve partire dall’interessato che però non deve dire “mi sto ritrovando nell’ipotesi della lettera a, b, c o d”, deve semplicemente avanzare la richiesta. Poi, se il titolare non vuole soddisfare queste richieste, sarà lui a dover dimostrare che non si è all’interno del perimetro delineato dall’articolo 18 e quindi risponderà che non intende procedere alla limitazione del trattamento, dando dimostrazione dell’infondatezza della richiesta perché non aderente all’elenco dell’articolo 18. Quando invece deve soddisfare la richiesta come lo fa? Da un punto di vista tecnico quello che deve fare, quello che deve svolgere, è un’attività di contrassegno dei dati, deve in qualche modo imprimere sui dati interessati dalla richiesta un vincolo di inutilizzabilità, cioè questi dati devono dal punto di vista tecnico non essere più utilizzati, né essere considerati utilizzabili e si dovrà limitare alla loro conservazione. Diciamo che questa marcatura, questo contrassegno dei dati interessati dalla richiesta può avvenire poi in qualsiasi modo, sta al titolare individuare il modo in cui limiterà il trattamento. Quindi ad esempio, li può trasferire in un sistema di trattamento diverso da quello dove sono, oppure li può rendere inaccessibili, oppure li può rimuovere. Insomma, il modo in cui lo fa è nella sua discrezionalità, purché appunto soddisfi la richiesta, ovviamente sempre con il solito principio di proporzionalità, nei limiti di quanto gli è possibile in base ai costi che questa operazione comporta, in base alle sue tecnologie a disposizione.

    Altro articolo che come l’oblio è stato introdotto nel GDPR per la prima volta è il diritto alla portabilità dei dati. Il diritto alla portabilità è un diritto che forse più di tutti esprime quella doppia anima del GDPR e cioè di tutela contestuale della persona nella rappresentazione della identità personale attraverso i dati e contestualmente tutela del mercato attraverso la circolazione dei dati. Perché il diritto alla portabilità è proprio funzionale non solo appunto a tutela della persona ma anche proprio al funzionamento del mercato digitale. Proprio perché la trasmissione dei dati in cui la portabilità tipicamente si realizza, permette una circolazione dei dati che possono essere utilizzati anche a livello di mercato, anche a livello di attività svolta dai professionisti del mercato in qualunque tipo di settore, e quindi poi è in questo modo la loro circolazione in qualche modo permette di generare ricchezza appunto anche per gli operatori economici e quindi aumentare e favorire la concorrenza nelle dinamiche di mercato. Innanzitutto il primo strumento, la prima estrinsecazione della portabilità è proprio quella della trasmissione, quindi si richiede la trasmissione di dati che sono in capo a un certo titolare, ad un altro titolare. E questo deve avvenire, prevede l’articolo 20 del GDPR, in un modo che sia accessibile, che sia chiaro, che sia strutturato, si dice interoperabile, nel senso che il titolare che trasmette i dati di cui dispone all’altro titolare deve farlo in modo tale che questo titolare possa utilizzare questi dati. Però poi la portabilità in generale è qualcosa che permette effettivamente anche il loro accesso e il loro riutilizzo. Cioè quando trasmetto devo poi permettere al secondo titolare di utilizzarli perché se li trasmetto in un formato per cui poi il titolare che li riceve non li può utilizzare allora non se ne fa niente. Quindi il diritto alla portabilità include in sé non solo la trasmissione ma anche la possibilità di accedervi, di riutilizzarli, di riceverli, di mantenerli, di conservarli. Deve essere reso possibile tutto questo e la ratio appunto è quella di rendere il più semplice possibile la circolazione di questi dati facendo, sempre attenzione alla tutela della persona, perché la loro circolazione permette di favorire la concorrenza sul mercato. L’articolo 20, però, delimita quali sono i dati che possono essere oggetto di portabilità. Innanzitutto non tutti i dati possono essere oggetto di portabilità. In particolare, l’articolo 20 prevede che siano portabili i dati trattati con mezzi automatizzati e la cui condizione di liceità si fondi su un consenso, oppure sulla conclusione di un contratto. Quindi le uniche ipotesi sono queste: la condizione di liceità, quella del consenso e quella del contratto (le lettere a e b dell’articolo 6). Non tutti i dati, quindi, possono essere oggetto della portabilità, innanzitutto per i parametri sopra accennati e poi perché non possono essere oggetto di portabilità i dati che sono stati oggetto di esercizio dell’oblio, proprio perché una volta che sono stati cancellati non sono più nella disponibilità del titolare, né tantomeno possono essere portati, trasmessi, i dati anonimi proprio perché rispetto ai dati anonimi manca quel collegamento tra informazione e persona e quindi non posso pretendere che vengono trasferiti dei dati anonimi. Per il resto, di regola, le rappresentazioni digitali dell’interessato con tutte le informazioni personali che lo riguardano tendenzialmente possono essere trasmesse, addirittura posso trasmettere quei dati che ho generato mediante le mie attività. Quindi se utilizzando un certo sito, ho generato una serie di dati riferiti alle mie ricerche, alla mia navigazione, o i cookie che ho generato, oppure la mia cronologia delle ricerche, oppure ho utilizzato dei dati riferiti alla mia localizzazione, tutti questi dati che ho generato attraverso la mia diretta attività li posso trasferire perché sono stati generati dalla mia attività concreta e diretta. Però, se questi dati sono stati poi utilizzati dal titolare del trattamento in modo da analizzarli e da queste analisi, principalmente l’analisi basata sul calcolo delle probabilità, sono stati generati dei nuovi dati, questi nuovi dati non possono essere oggetto della trasmissione, oggetto della portabilità, proprio perché sono dati analizzati dal titolare, quindi su cui il titolare ha svolto un’attività di analisi, sono i cosiddetti dati inferenziali e i dati derivati, di questi dati non può essere chiesta la trasmissione perché non sono soltanto generati dall’interessato, ma sono rielaborati dal primo titolare in un modo tale che impedisce la trasmissione. Proprio perché sono oggetto di tutta un’attività di lavoro che è stata svolta dal titolare e che in qualche modo, sempre nelle logiche di favore per il mercato, della concorrenza, rappresentano una conoscenza, un vantaggio conoscitivo, un know how che per quel titolare diventa un vantaggio economico sugli altri concorrenti e quindi per il funzionamento del mercato è considerato in qualche modo lesivo poi della sua attività la richiesta della loro trasmissione. Quindi ci fermiamo appunto soltanto ai dati che sono stati generati direttamente dall’interessato.

    Altro diritto è previsto all’articolo 21 ed è il diritto di opposizione al trattamento. Il diritto di opposizione si realizza attraverso una dichiarazione di volontà con cui l’interessato esprime appunto la volontà di interrompere il trattamento in via definitiva. Ovviamente al titolare resta la possibilità di dimostrare la mancanza di motivi che giustificano questa interruzione e quindi se riesce a dimostrarlo può procedere nel trattamento. L’articolo 21 prevede in particolare che il titolare si debba astenere dal trattamento dei dati, quindi che debba interrompere il trattamento. A questo punto, è il momento in cui deve astenersi dal trattamento, implicitamente la norma richiede anche che li cancelli, perché, come già detto più volte, la semplice conservazione del dato è di per sé un trattamento (tant’è che abbiamo detto che quando limitiamo il trattamento svolgiamo solo l’attività di conservazione), quindi se si deve astenere dal trattamento, anche la conservazione è un trattamento e quindi è ritenuta in contrapposizione con l’esercizio della opposizione. Quindi l’opposizione dovrebbe includere automaticamente la cancellazione, a meno che il titolare non riesca a dimostrare che non sussistono i motivi per cui il  soggetto interessato può avanzare questo tipo di richiesta. L’opposizione, infatti, si può richiedere solo in due casi e cioè nei casi in cui il trattamento abbia come condizione di liceità le previsioni delle lettere e ed f dell’articolo 6. Le previsioni dell’articolo 6 sono quando il trattamento è necessario per l’esecuzione di un compito di pubblico interesse di cui viene rivestito il titolare e poi la lettera f invece quando il trattamento è necessario per il perseguimento di un legittimo interesse del titolare. Solo quando la condizione di liceità è una di queste due si può esercitare l’opposizione. Ovviamente quando si è in questa ipotesi, poi l’opposizione può essere esercitata in qualsiasi momento e poi starà al titolare dimostrare che la richiesta non può essere soddisfatta perché effettivamente il pubblico interesse nella lettera e e il legittimo interesse del titolare della lettera f, prevalgono sull’interesse dell’interessato e quindi il trattamento può effettivamente continuare, in quanto non ci sono dei motivi validi per ritenere prevalente l’esercizio di questo potere inibitorio, di questo potere di interrompere il trattamento. Quindi per l’interessato, nel caso in cui ci si trovi di fronte alle situazioni previste dalla lettera e ed f, è semplice fare questa richiesta, perché deve semplicemente dire perché vuole avvalersi di questo diritto però poi non deve dimostrare nulla, starà al titolare dover dimostrare che l’interesse dell’interessato è meno rilevante nel bilanciamento che bisogna sempre fare rispetto agli interessi indicati alle lettere e ed f dell’articolo 6, che appunto sono condizioni di liceità del trattamento.

    Diritto dei dati – I principi del GDPR

    I principi del GDPR: liceità, correttezza, trasparenza, finalità, necessità, esattezza, minimizzazione, proporzionalità, precauzione, accountability.

    Continuiamo a muovere lungo il GDPR e in particolare dobbiamo analizzare quelli che sono i cosiddetti principi che guidano il GDPR. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che sono i principi che il legislatore europeo ha voluto riconoscere, ha voluto utilizzare come guida, l’ispirazione della sua attività normativa che viene poi concretizzata nelle norme del GDPR ma che sono anche i principi che guidano poi l’esercizio di tutte le attività che il GDPR descrive. Quindi, di fronte a qualsiasi dubbio, a qualsiasi equivoco, a qualsiasi necessità di capire se, quando, come sono state rispettate le norme del GDPR, proprio attraverso il ricorso ai principi che ne guidano l’essenza, in qualche modo, la costruzione, possiamo capire se stiamo rispettando o meno le norme. Innanzitutto diciamo che questi principi generali in tema di trattamento si applicano nei confronti di coloro, di quei titolari che svolgono attività commerciali e professionali. Dei primi principi li troviamo nell’articolo 5 del GDPR che ne descrive una sorta di elenco. Un elenco abbastanza lungo che ci fa una serie di riferimenti da cui ricaviamo questi principi. E i primi sono indicati nella lettera a del primo paragrafo dell’articolo 5 che ci dice proprio in apertura che i dati personali devono essere trattati in modo lecito, corretto e trasparente.

    Quindi i nostri primi tre principi da cui partiamo sono proprio la liceità, la correttezza e la trasparenza. La liceità è quella che richiede un discorso un po’ più ampio, perché il principio di liceità è ancorato a due requisiti alternativi che riscontriamo nell’articolo successivo, nell’articolo 6. L’articolo 6, infatti ci indica quali sono le cosiddette condizioni di liceità del trattamento. Abbiamo un elenco diviso in lettere, che però possiamo suddividere in due gruppi. Le condizioni fondate sul requisito di necessità, che sono quelle dalla lettera b alla lettera f, e poi la condizione del consenso che è quella della lettera a. Iniziamo quindi da quelle fondate sul principio di necessità del trattamento, quelli appunto dalla lettera b alla lettera f. Sono tutti esempi in cui il trattamento si considera lecito, quindi le condizioni di trattamento sono lecite per diversi motivi tra loro. La prima ipotesi è quella in cui il trattamento è necessario per l’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte. Quindi noi per eseguire un contratto stipulato con interessati dobbiamo necessariamente eseguire questo trattamento. Quindi noi stipuliamo un contratto però, affinché questo contratto sia eseguito è fondamentale l’attività di trattamento dei dati personali: la necessità di questo trattamento, rispetto all’esecuzione del contratto che abbiamo stipulato, rende il trattamento lecito. Un’altra ipotesi è quella in cui il titolare deve adempiere ad un obbligo legale. Per esempio pensiamo agli obblighi di tenuta della contabilità o rispetto all’emissione delle fatture. Rispetto a questi obblighi un titolare del trattamento si trova di fronte alla necessità di eseguire il trattamento dei dati e quindi automaticamente questo trattamento sarà lecito proprio perché il titolare così come svolge il trattamento, deve al contempo adempiere ad un obbligo legale. Una terza ipotesi è quella della lettera d, che fa riferimento alla salvaguardia degli interessi vitali dell’interessato. Quindi quando è necessario salvaguardare gli interessi vitali, quindi proprio quelli che riguardano la sopravvivenza della persona, allora è lecito quel trattamento perché appunto è necessario per tutelare la sua vita. In questo caso per esempio possiamo pensare all’ipotesi di trattamento dei dati che sono necessari, e sono fatti relativamente recenti, per tenere sotto controllo la diffusione di un’epidemia, oppure nei casi di catastrofi naturali, di emergenze, rispetto alle quali la salvaguardia degli interessi vitali delle persone coinvolte può comportare anche il trattamento. Ancora lettera e, è necessario quando è svolto per l’esecuzione di un interesse pubblico da parte del titolare. E poi l’ultima ipotesi, quella della lettera f, è fondata la liceità sulla necessità del trattamento dei dati quando il trattamento deve essere effettuato per perseguire quello che è un legittimo interesse del titolare. L’importante in questo caso è che il legittimo interesse del titolare non si scontri con i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato, soprattutto se l’interessato è un soggetto di minore età. Questa valutazione è particolare, molto particolare questa ipotesi di cui alla lettera f, perché il fatto che il legittimo interesse sia tale, in realtà è una valutazione che spetta al titolare stesso. Quindi è il titolare stesso a individuare l’ipotesi in cui ritiene che il suo legittimo interesse sia tale da giustificare il trattamento. Poi, ovviamente ex-post ci può essere un controllo rispetto alla liceità o meno di questo trattamento, però a monte è il titolare stesso che ritiene il suo legittimo interesse come non preponderante rispetto ai diritti, alla libertà dell’interessato e quindi tale da giustificare il trattamento stesso. Ciò che è importante è che comunque, tra titolare e interessato in questi casi vi sia un tipo di relazione che in qualche modo giustifichi questo trattamento, nel senso che renda questo trattamento attendibile, aspettabile da parte dell’interessato. Pensiamo per esempio a quei rapporti tra clienti e venditori e poi rapporti tra dipendente e datore di lavoro, sono dei rapporti in cui effettivamente l’interessato in questi esempi è il cliente o il lavoratore, si può ragionevolmente aspettare, attendere che il titolare e quindi nell’esempio, il venditore o il datore di lavoro, debba utilizzare quei dati personali e quindi appunto queste ipotesi possono permettere il trattamento perché fungono da condizione di liceità del trattamento stesso. Quindi questi esempi dalla lettera b alla lettera f dell’articolo 6 ci indicano delle ipotesi in cui la condizione di liceità del trattamento è la necessità del trattamento.

    L’altra ipotesi, quella della lettera a, è invece la più diffusa perché è il consenso dell’interessato. Quindi l’articolo 6 lettera a ci dice che il trattamento è lecito quando c’è stato il consenso dell’interessato, che sia un consenso espresso per tutte le finalità che il titolare deve perseguire. Il consenso addirittura diventa l’unica fonte di liceità del trattamento quando i dati che vengono trattati sono i dati descritti dall’articolo 9 del GDPR. I dati descritti articolo 9 sono i cosiddetti dati particolari, sono un po’ l’evoluzione di quelli che più diffusamente venivano chiamati come dati sensibili. Il GDPR supera il concetto di dato sensibile, preferendo quello di dato particolare. Dati particolari quindi a questo punto sono in realtà facilmente immaginabili perché sono dati particolari le convinzioni religiose, le opinioni politiche, i dati genetici, i dati che rivelano l’origine etnica di una persona o quelli che ne rivelano l’orientamento sessuale o quelli relativi alla salute o insomma tutta una serie di dati estremamente connessi al nucleo più intimo della identità personale. Diciamo che il consenso e le altre condizioni di liceità fondate sulla necessità sono condizioni che possiamo considerare equipollenti nel senso che sono tutte condizioni di liceità del trattamento, sono infatti dei criteri alternativi: criterio del consenso e criterio della necessità. Ciò che cambia è che mentre quando un soggetto presta direttamente il consenso siamo di fronte ad una situazione in cui abbiamo una persona che opera autonomamente una scelta discrezionale, cioè quando io fornisco il consenso sto valutando tutti quelli che sono gli aspetti in gioco, gli interessi in gioco, faccio io il bilanciamento rispetto a se voglio prestare o meno il consenso perché deve essere un consenso informato, libero, specifico e inequivocabile, quindi la scelta discrezionale è totalmente mia. Invece quando siamo di fronte ai criteri fondati sulla necessità, quindi le condizioni di liceità fondate sulla necessità, lettere da b ad f, qui la valutazione non è discrezionale del singolo interessato perché appunto la necessità del consenso è valutata a monte dal legislatore che reputa quelle situazioni come idonee a rendere il trattamento lecito.

    Ciò che comunque conta è che in entrambi i casi, sia quando siamo di fronte alle condizioni di liceità fondate sul consenso, sia alle condizioni di liceità fondate sulla necessità, stiamo comunque parlando di condizioni, nel senso di presupposti della liceità. Però ciò non vuol dire che il trattamento poi sia lecito del tutto, perché la liceità va considerata in una duplice accezione. La prima accezione è questa legata ai presupposti. Quindi tutti questi requisiti stanno ad indicare quelle che sono le condizioni senza le quali non si può nemmeno iniziare il trattamento, sono la conditio sine qua non del trattamento. Se non abbiamo questa queste condizioni proprio a monte il trattamento non potrà essere lecito. Però la liceità va anche considerata in accezione più ampia quindi una liceità cosiddetta a valle: se quindi a monte guardiamo le condizioni, a valle guardiamo in concreto quelle che sono le modalità in cui tutta l’attività viene realizzata e quindi qui entrano in gioco anche gli altri principi. Innanzitutto il principio di correttezza e il principio di trasparenza. I principi di correttezza e di trasparenza, in particolare all’articolo 5 sono posti allo stesso livello della liceità, quindi liceità, correttezza e trasparenza che devono caratterizzare il trattamento. Il principio di correttezza e il principio di trasparenza come si esprimono in concreto? Tipicamente la loro espressione avviene attraverso l’informativa. L’informativa che deve essere somministrata all’interessato in un senso che sia funzionale alla formazione del suo consenso, della sua volontà di procedere al trattamento dei dati, affinché questo consenso sia appunto consapevole, sia libero. E affinché il soggetto interessato sia reso edotto di tutte quelle che sono le caratteristiche di questo trattamento e tutti i diritti che gli sono riconosciuti in virtù di questo trattamento, quindi l’informativa ci dovrà spiegare come si svolge il trattamento, per quanto tempo dura, quali sono le finalità, in più mi deve anche dire quali sono i miei diritti e quindi pensiamo per esemprio al diritto di accesso, al diritto alla cancellazione dei dati. Quindi la logica dell’informativa che appunto esprime l’essenza dei principi di correttezza e trasparenza è una logica di permettere all’interessato di prestare un consenso che sia informato. La trasparenza peraltro è un principio che generalmente riguarda il tema della tutela dei dati personali un po’ da sempre, però soltanto con il GDPR è stato effettivamente esplicitato, quindi il GDPR in ciò scrive proprio, indica, formalizza, positivizza questo principio di trasparenza come principio guida dell’attività coinvolta al trattamento dei dati personali. La trasparenza in particolare riguarda le modalità con cui i dati vengono trattati e quindi con cui vengono raccolti, con cui vengono utilizzati, con cui vengono consultati, conservati. E’ poi un principio in forza del quale si impone al titolare di indicare tutte le informazioni che deve dare all’interessato e di dare ogni tipo di comunicazione rispetto al trattamento, in un modo che sia facilmente accessibile e comprensibile e in un modo che utilizzi un linguaggio chiaro e semplice. Proprio perché l’interessato è un po’ il soggetto debole di questo rapporto, perché è colui che sta fornendo i suoi dati personali, allora deve conoscere tutte le informazioni possibili sul trattamento nel modo più chiaro, semplice, intellegibile possibile.

    Infine la trasparenza a livello di informativa la concretizziamo anche nell’obbligo del titolare di rendere nota la sua identità. Quindi quando dò il consenso al trattamento di dati personali devo effettivamente avere indicato chi è il titolare che si occuperà di questo trattamento e tutte quelle che saranno le finalità del trattamento. Diciamo poi che i confini concreti della correttezza e della trasparenza sono molto poco tracciabili, sono molto sovrapposti tra loro. La correttezza possiamo intendere in un senso più legato al comportamento corretto che il titolare deve avere nei confronti dell’interessato. La trasparenza forse ci riesce a descrivere meglio il fatto che c’è necessità di una massima comprensibilità di tutto ciò arriva nel trattamento mentre la correttezza può riguardare di più i comportamenti che in concreto il titolare tiene nei confronti dell’interessato.

    Ovviamente tutti questi principi, appunto correttezza, trasparenza e anche liceità devono perdurare per tutto il rapporto, deve perdurare la concretizzazione di questi principi. Quindi proprio un riconoscimento dell’esigenza che tra titolare e interessato ci sia la massima lealtà nel senso che il titolare deve garantire all’interessato di essere munito di tutti gli strumenti necessari a comprendere le modalità del trattamento, ma anche gli effetti che il trattamento può avere su di lui. Quindi leale comportamento del titolare nei confronti dell’interessato si concretizza in tutto ciò che riguarda poi la possibilità dell’interessato di scegliere liberamente il trattamento e poi di controllarlo, così come la lealtà è anche dall’interessato nei confronti del titolare ad esempio nell’esercizio del diritto all’accesso. Il diritto all’accesso deve essere svolto sempre da parte dell’interessato, in un modo che non sia abusivo, altrimenti, appunto, anche qui la lealtà viene meno. Altro principio importantissimo è il principio di finalità. Il trattamento deve essere sempre finalizzato. Il principio di finalità pone un limite intrinseco proprio all’attività del trattamento, perché il trattamento dei dati deve sempre essere effettuato nell’ambito delle finalità che il titolare ha dichiarato di svolgere, di perseguire. E ovviamente non sono finalità che il titolare sa di voler svolgere, ma sono le finalità che nell’informativa ha dichiarato di voler svolgere, proprio perché tra le finalità che il titolare persegue e le finalità che il soggetto interessato conosce, ci deve essere massima corrispondenza. E anche qui ritroviamo la correttezza di prima. Se il titolare modifica le finalità, ne aggiunge delle altre, ne toglie alcune, deve sempre aggiornare l’informativa e renderne edotto il soggetto interessato. Però, appunto, a monte è necessario individuare delle finalità, usiamo quindi una logica preventiva perché fin dall’inizio devono essere indicate le finalità che si vogliono perseguire e attraverso l’indicazione di queste finalità noi andiamo un po’ a costruire un perimetro dell’attività del titolare, un perimetro dell’attività di trattamento. E ovviamente questo perimetro deve essere inequivocabilmente chiaro e definito, non ci deve essere il dubbio di interpretare in che modo la finalità verrà perseguita, non ci deve essere la possibilità che si creino degli equivoci rispetto a quelle che sono le finalità, tant’è che si parla di finalità costruite in un senso addirittura oggettivo, proprio perché devono essere completamente manifeste ed inequivocabili, proprio perché se così non fosse il soggetto interessato non potrebbe svolgere quell’attività di controllo che dicevamo gli viene riconosciuta.

    Quindi questa attività continua nel tempo e io conosco le finalità perchè il titolare nell’informativa me le ha comunicate, però se nel tempo viene svolto ad esempio un cosiddetto trattamento secondario, quindi un trattamento ulteriore rispetto a quello che era stato indicato all’inizio e che quindi può perseguire delle finalità ulteriori, allora il titolare deve indicarlo e questo è un onere che il titolare ha sempre perché deve essere sempre corretto e trasparente nei confronti dell’interessato. E la logica è sempre quella di proteggere il più possibile l’interessato, perché a maggior ragione con il progressivo sviluppo delle tecnologie informatiche, rispetto a quando un soggetto magari ha fornito il consenso la prima volta, nel tempo è possibile che il titolare entri a disposizione di strumenti, di modalità attraverso cui può incidere, impattare in modo più forte, magari rispetto a prima sulla sfera individuale del singolo, può perseguire delle finalità in più per il tipo di attività che svolge quindi la tutela che in questo modo il nostro ordinamento, l’ordinamento europeo garantisce al singolo è una tutela di imporre progressivamente al titolare di essere trasparente rispetto alle finalità che vuole perseguire. Ovviamente questo per quanto riguarda l’ipotesi in cui le finalità cambino o nel caso in cui delle prime finalità se ne aggiungano delle altre. Nell’ipotesi in cui invece le finalità non sono nuove, né  cambiano, ma la finalità per cui l’interessato aveva inizialmente prestato il consenso non è più attuale quindi per esempio l’ipotesi in cui la lo scopo per cui venivano trattati i dati viene conseguito, allora in quel caso il trattamento che avviene dopo il conseguimento dello scopo che era stato dichiarato a quel punto diventa illecito: perché qui non stiamo parlando di un trattamento che si aggiunge, di finalità che si aggiungono e che vanno a completare quello inizialmente ammesso. Se siamo nell’ipotesi in cui lo scopo che era stato dichiarato è terminato, allora questo trattamento dei dati non può più continuare per finalità che vengono introdotte successivamente. Proprio perché non c’è più la condizione per il trattamento di quegli stessi dati, quel titolare non può riutilizzare i dati perché la finalità è conseguita, lo scopo è conseguito. Ovviamente alla conclusione, al raggiungimento dello scopo del trattamento, possiamo considerare equiparabili anche, ad esempio, una sopravvenuta carenza dell’interesse alla protrazione del trattamento o anche una qualsiasi insorgenza di una causa che renda addirittura illegittima la prosecuzione del trattamento.

    Ovviamente a fronte di questi obblighi che sono posti a carico del titolare e quindi di rispettare le finalità del trattamento corrispondono i diritti e in questo caso è immaginabile il diritto alla cancellazione. Se per esempio valuto che il trattamento si sta perseguendo oltre le finalità indicate posso chiedere la cancellazione dei miei dati perché ricordiamoci sempre che se c’è un obbligo in capo ad una persona, proprio dal punto di vista di schema della norma, se si pone un obbligo a carico di uno, abbiamo sempre un diritto posto a carico dell’altro soggetto che ad esso si interfaccia. Quindi così come abbiamo l’obbligo delle finalità, abbiamo il diritto dell’interessato a chiedere la cancellazione.

    In relazione a queste finalità, l’articolo 5, lettera b dice che le finalità oltre ad essere espresse devono essere legittime e questa legittimità andrà parametrata in funzione dello svolgimento di finalità che possano essere considerati apprezzabili da parte dell’ordinamento, dunque delle finalità dal contenuto positivo rispetto a quanto l’ordinamento naturalmente permette. Nella successiva lettera c ricaviamo il principio di necessità. La lettera c dice che è necessario che i dati abbiano un nesso di pertinenza e di adeguatezza rispetto alle finalità, cioè i dati che il trattamento utilizza, i dati che il titolare tratta sono dati che devono essere pertinenti e adeguati rispetto alle finalità. Quindi il principio di necessità è in senso ampio il principio per cui i dati trattati devono essere necessari per lo svolgimento del trattamento. In questo senso il principio di necessità ci fa intendere che non debbono essere raccolti dati eccedenti rispetto a quelli di cui il titolare ha bisogno. Quindi la logica, la ratio che il legislatore europeo persegue in questa indicazione è che la tutela della persona passa anche dalla riduzione quanto più possibile dei dati che vengono trattati rispetto a quella persona. Tutto ciò che non è necessario non deve essere trattato. In ciò possiamo dire quindi che la necessità descrive quello che viene definito in modo più dettagliato, in modo più specifico il principio di minimizzazione. Il principio di minimizzazione è proprio il principio in forza del quale i sistemi di trattamento dei dati personali devono ridurre al minimo l’utilizzo dei dati che servono. Quindi se lo stesso obiettivo lo posso raggiungere con meno dati o magari con dati anonimi o con degli pseudonimi o comunque con dei dati che non sono tali da ricondurmi direttamente all’interessato, allora devo farlo, io titolare devo rendere il trattamento il meno impattante possibile rispetto all’utilizzo dei dati che si vanno ad ad utilizzare. Non solo, a questo il principio di minimizzazione si affianca sempre il principio di esattezza. Il principio di esattezza lo ritroviamo sempre in questa lettera c, quando ci viene detto che i dati devono essere esatti. Cosa vuol dire che devono essere esatti? Vuol dire che devono essere sempre adeguati a descrivere, a rappresentare l’identità dell’interessato, quindi ciò vuol dire che devono essere anche aggiornati. Quindi l’esattezza include anche l’aggiornamento. Se dei dati non sono più idonei a descrivere, a rappresentare un certo individuo, allora non sono esatti. E quindi non possono essere più utilizzati proprio perché il titolare deve sempre trattare dati ridotti al minimo ma esatti, quindi perfettamente adeguati a descrivere il soggetto da tutelare. La differenza qual è tra questi due principi di minimizzazione e di esattezza: che la minimizzazione pone un limite all’attività del trattamento, perché dal punto di vista qualitativo e quantitativo pone proprio un limite di contenuto all’attività che il titolare svolge. Invece l’esattezza pone in capo al titolare non un limite, ma un onere e cioè l’onere di assicurarsi che ci sia sempre una fedeltà contenutistica delle informazioni che utilizza, cioè le informazioni che utilizza devono essere fedeli, rispondenti a rappresentare adeguatamente il soggetto. E quindi questo vuol dire non solo che questi devono essere fedeli all’inizio ma che anche nel tempo è necessaria una costante progressiva corrispondenza e quindi eventualmente una modifica, un aggiornamento, un’integrazione rispetto ai dati che ha nella sua disponibilità. Anche qui obbligo del titolare di rispettare l’esattezza dei dati, dall’altro lato diritto dell’interessato a chiedere la modifica, l’integrazione e l’aggiornamento dei suoi dati.

    La necessità, oltre ad esprimere minimizzazione e esattezza, esprime anche quello che è stato definito il principio di precauzione. La precauzione è un’altra faccia della necessità laddove si richiede al titolare di valutare ex-ante, quindi a priori, che effettivamente il dato sia pertinente rispetto alla finalità. Ecco questa parola pertinente fonda questo principio di precauzione per cui il titolare ha l’onere, ha l’obbligo di accertarsi, di assicurare che i dati che chiede siano pertinenti rispetto al trattamento. Ancora sempre dentro la necessità si esprime il principio di proporzionalità, sempre legato alla quantità e alla qualità dei dati. Proporzionalità che diviene un canone proprio ermeneutico di tutta la disciplina. Peraltro la proporzionalità non riguarda solo il titolare, nel senso che il titolare è tenuto a ponderare l’utilizzo dei dati affinché questo utilizzo sia proporzionato alle finalità che che vuole perseguire ma addirittura con la proporzionalità andiamo ad individuare un canone ermeneutico che oltre a riguardare il titolare riguarda anche i legislatori nazionali. Ciò vuol dire che tutti i legislatori nazionali nel momento in cui intervengono rispetto alla disciplina dei dati personali per ciò che è oltre il GDPR (perché il GDPR è un regolamento, quindi i legislatori nazionali non lo possono modificare, né lo devono implementare a livello nazionale), però per qualsiasi aspetto che tratti i dati personali da un punto di vista di legislazione interna, quindi nazionale degli Stati membri, i legislatori devono sempre essere guidati da questa stella polare della proporzionalità rispetto all’utilizzo dei dati, perché dobbiamo sempre ricordarci che quando noi normiamo la disciplina dei dati personali dobbiamo sempre bilanciare l’obiettivo di tutela della persona con l’obiettivo di circolazione di dati da incentivare, favorire e promuovere nell’ambito di una economia di mercato che si fonda ormai quasi interamente sul digitale, quindi nell’ottica del funzionamento del mercato.

    A chiusura dell’articolo 5 abbiamo la positivizzazione di ulteriori principi che sono in particolare il principio di integrità e di riservatezza e il principio di responsabilizzazione del titolare. Il titolare si deve occupare, deve far sì che i dati vengano posti in una condizione di adeguata sicurezza. Adeguata sicurezza vuol dire che devono essere conservati in un modo tale che consenta l’identificazione del soggetto interessato, per il tempo necessario al perseguimento delle finalità e nell’ambito di questa conservazione devono essere adottate tutte le misure necessarie a che non vi sia un trattamento illecito, una dispersione dei dati, la loro perdita, la loro distruzione, la loro cancellazione accidentale o comunque una qualsiasi forma di data breach, quindi di ingerenza di terzi rispetto ai dati detenuti dal titolare. Quindi quando l’articolo 5 dice che questa sicurezza che il titolare deve garantire deve essere adeguata, il concetto di adeguatezza delle misure di sicurezza adottate è un aspetto che riguarda innanzitutto proprio la pretesa nei confronti del titolare. E in secondo luogo ovviamente proprio la considerazione delle misure tecniche organizzative che il titolare pone in essere. In generale il titolare deve adottare le migliori misure possibili contestualizzate alla sua situazione perché ovviamente implementare delle misure di sicurezza dei dati ha un costo. Quindi anche l’adeguatezza la dobbiamo considerare in base al soggetto che è chiamato a porre in essere queste misure di sicurezza in relazione ai costi, in relazione alle possibilità e anche in relazione allo sviluppo tecnologico perché lo sviluppo tecnologico è a sua volta un parametro di sicurezza: magari determinate misure che oggi sono considerate ottimali per proteggere i dati personali nel tempo diventano meno forti, più accessibili più by-passabili magari da esperti di questo tipo di attività. E poi appunto anche lo sviluppo tecnologico oltre ai costi, alle possibilità, è un parametro per valutare l’adeguatezza delle misure che sono scelte dal titolare del trattamento per proteggere i dati. Ciò che emerge un po’ da queste battute su questa parte finale l’articolo 5 è che il GDPR spinge molto per una responsabilizzazione del titolare, quindi il titolare non può ricevere questi dati, trattarli, poi quello che succede succede. Il titolare risponde proprio di tutte le attività che riguardano i dati quindi non soltanto quelle più strettamente legate ad un utilizzo dei dati ma anche alla loro appunto protezione e in questo senso quindi il titolare viene onerato con un obbligo positivizzato di occuparsi sempre di limitare al minimo i rischi che gli interessati corrono una volta che permettono il trattamento dei loro dati personali. La logica è quella di rendere il titolare soggetto responsabile, nel senso di soggetto proattivo, allo sviluppo di ogni attività che sia idonea a garantire la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone fisiche. Perché se io proteggo i dati personali della persona stò proteggendo ovviamente le sue libertà individuali.

    Ecco, quindi, che il titolare è tenuto ad adottare tutte le garanzie indispensabili, a utilizzare, a implementare tutte le misure tecniche e organizzative idonee a assicurare la tutela dei dati delle persone fisiche. E ovviamente nel far ciò si dice che deve predisporre delle misure di tutela tecniche, organizzative, giuridiche. Già dall’utilizzo di questi termini riscontriamo come sia un tipo di contesto in cui effettivamente è necessaria la presenza di diverse figure che si occupano di questa attività di controllo del rischio da parte del titolare, proprio perché serve una visione integrata che tenga conto di tutti gli aspetti che vengono toccati dal trattamento, quindi da quelli più strettamente informatici a quelli di attività svolta dal titolare e magari anche quelle appunto più strettamente legali. Ovviamente questa sicurezza deve essere garantita nel tempo, quindi anche questo principio diventa un principio che permea l’intero rapporto perché deve essere garantita in ogni fase dell’attività di trattamento, quindi da intendersi un principio che si sviluppa in senso dinamico, deve essere ridefinita questa adeguatezza delle misure adottate nel tempo in base a quelle che sono le spese da sostenere e i progressi sotto il punto di vista tecnico. Ciò vuol dire che il titolare è tenuto a monitorare nel tempo, ad un’attività di monitoraggio per accertarsi di aver adottato le misure più adeguate, proporzionate in relazione ai rischi perché i rischi anche sono in continuo mutamento. Ciò che è importante è che esprime ancor di più la responsabilizzazione che viene fatta del titolare e che il titolare deve essere addirittura in grado di dare prova in ogni momento di aver rispettato queste regole. Quindi serve anche una formalizzazione da parte del titolare di tutte le attività che svolge per assicurarsi di aver posto in essere le migliori misure possibili. Perché gli può essere richiesto di dimostrare di aver attuato la disciplina GDPR al 100%. In questo senso il principio di responsabilizzazione rispetto al quale vengono svolte tutte le attività di cui sopra viene in qualche modo riportato nel termine della cosiddetta accountability. Si parla di accountability proprio con il termine inglese perché è qualcosa che va oltre la responsabilità, cioè non solo il titolare è responsabile ma in più è tenuto a questo ruolo, a questa funzione proattiva di tutela che insieme possono essere descritti con questa accountability, proprio perché accountability significa rendere conto. Quindi il titolare rende conto sia dal punto di vista di responsabilità sia dal punto di vista di attività che è chiamato a svolgere, quindi l’accountability proprio come un termine che va a permeare tutte le politiche, le procedure, l’agire del del titolare che deve sempre porre in essere questa attività di controllo di gestione e di prevenzione del rischio nello svolgimento del trattamento.

    Rispetto all’accountability del titolare emergono, rilevano, due istituti particolari che sono introdotti dal GDPR. Che sono a loro volta l’espressione non solo del principio di responsabilizzazione, dell’accountability del titolare ma anche della minimizzazione che abbiamo visto prima, quindi della necessità. Questi istituti sono due. Il primo è espresso dall’articolo 35 del GDPR ed è la valutazione di impatto. La valutazione di impatto deve essere eseguita, è una valutazione preventiva di impatto, deve essere eseguita ogni volta che il trattamento dei dati personali – di cui bisogna verificare la proporzionalità rispetto alle finalità – presenti dei rischi elevati per i diritti e le libertà delle persone fisiche. Quindi ogni volta che è possibile che ci sia un rischio particolarmente elevato per i diritti e le libertà delle persone fisiche, allora è necessario preventivamente fare questa valutazione di impatto. E se la valutazione di impatto ci dice che effettivamente il rischio che l’interessato corre è particolarmente elevato e le misure adottate dal titolare possono non essere in grado di tutelare l’interessato in modo nel modo opportuno, allora, prima di eseguire il trattamento, il titolare è tenuto a consultare l’Autorità Garante, il Garante per la Protezione dei Dati Personali. Quindi la valutazione di impatto come istituto nuovo introdotto dal GDPR con cui prevenire i rischi che l’interessato può correre in considerazione del trattamento che il titolare vuole svolgere.

    Oltre alla valutazione preventiva di impatto, un’altra espressione della dell’accountability è quella che riscontriamo nei metodi cosiddetti di privacy by design e privacy by default, espressi dall’articolo 25 del GDPR. Privacy by design vuol dire protezione fin dalla progettazione, mentre privacy by default vuol dire protezione dei dati per impostazione predefinita. Sono dei metodi di tutela dei dati che il titolare è tenuto ad esercitare nel senso che deve far sì che il trattamento per come è impostato (impostazione predefinita) o per come progettato proprio fin dall’inizio, sia strutturato in un modo tale da impedire o comunque da limitare il più possibile il rischio di un trattamento che non protegga i dati personali. Ovviamente pure qui rientriamo nei principi citati in precedenza. Per esempio facciamo ipotesi di privacy by design, quindi protezione dei dati fin dalla progettazione, come faccio ad assicurarmi di proteggerli al meglio facendo sì che io utilizzi soltanto i dati pertinenti, soltanto i dati necessari, quindi rispettando il principio di minimizzazione, il principio di proporzionalità e principio di necessità al massimo? Sto rispettando la proporzionalità, nel senso che li utilizzo soltanto per il periodo di tempo determinato? Insomma, nel momento in cui sto rispettando tutti questi principi li concretizzo nella progettazione del mio sistema di trattamento e quindi progetto l’attività di trattamento privacy by design, dal design, della progettazione dell’attività di trattamento in modo tale da concretizzare proprio tutti gli obblighi che il GDPR mi pone come titolare. Peraltro, nel momento in cui, nonostante io abbia adottato tutte le misure più adeguate possibili, io titolare mi rendo conto che è avvenuta una violazione dei dati, ho addirittura l’obbligo della cosiddetta data breach notification. Quindi ho l’obbligo di notificare l’avvenuta violazione al Garante e l’obbligo di comunicare l’avvenuta violazione agli interessati. Lo stesso soggetto che tratta i dati rispetto ai quali si è verificata la violazione ha l’obbligo di rendere nota questa notizia sia al Garante così che possa intervenire, sia agli interessati. Peraltro in tutto questo ambito entra in gioco anche un altro soggetto che affianca il titolare che è nominato con l’acronimo di DPO che sarebbe il Data Protection Officer. Questo è un soggetto che tra le varie funzioni che ricopre con riferimento all’implementazione di tutte le regole del GDPR è incaricato in particolare proprio di verificare che il rispetto della normativa privacy sia costante, sia continuo da parte del titolare e infatti è un soggetto che poi si occupa anche di svolgere attività di rapporto, di contatto tra il titolare e l’autorità di controllo e il garante, proprio perché ha questo ruolo di verificare in concreto il rispetto della normativa.

    Diritto dei dati – Il diritto alla privacy

    Diritto alla riservatezza, privacy e protezione dei dati personali. Evoluzione normativa in Italia e nell’UE e terminologia di base del GDPR.

    Penso che partire dal diritto alla privacy sia fondamentale proprio perché è un po’ il centro, oltre che il punto di partenza appunto di ogni discorso che riguarda la tutela e la protezione dei dati. Innanzitutto dobbiamo dire che cos’è la privacy, il concetto di privacy si è molto evoluto negli anni ed è un concetto in continua evoluzione perché ha seguito, segue e continua a seguire l’evoluzione delle tecnologie e in particolare delle tecnologie informatiche.

    Il diritto alla privacy nasce in origine nell’Ottocento negli Stati Uniti, nasce nella sua concezione di diritto alla riservatezza. Quindi noi partiamo da una concezione della privacy che coincide del tutto con la riservatezza. In questo significato originario quindi stiamo andando a tutelare la sfera giuridica soggettiva personale, quella che è l’intimità della vita privata e quindi non tanto ovviamente a livello fisico, di solitudine fisica, di lasciar soli fisicamente, ma anche inteso come di evitare l’intrusione nell’intimità della vita del soggetto e quindi a difesa di quelli che sono i valori di dignità di autonomia dell’individuo rispetto appunto alla sua persona.

    Questo diritto muta nel tempo perché di fronte ad una società sempre più digitalizzata, di fronte ad una società sempre più toccata dalle innovazioni del digitale e quindi da tutte le tecnologie informatiche, in qualche modo cambia e da diritto alla riservatezza in questo senso inteso passiamo ad una logica quasi più di diritto di libertà informatica. Diritto di autodeterminazione informatica, diritto di protezione rispetto ai propri dati personali. Ovviamente sempre nella logica dell’utilizzo di questi dati che ci riguardano da parte di terzi.

    Perché è un contesto in cui, soprattutto grazie alle spinte del digitale, l’informazione circola in dei modi completamente nuovi rispetto al passato. Con una velocità, con una capacità di diffusione nettamente più estesa rispetto a quanto poteva avvenire prima dell’avvento delle tecnologie informatiche e quindi richiede un cambio di passo, un cambio di considerazione perché soprattutto attraverso l’utilizzo di internet, chiunque è in grado in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, di accedere a informazioni che quindi devono essere a questo punto adeguatamente tutelate. Perché chiunque può fare accesso, chiunque le può memorizzare, le può utilizzare e conseguentemente le può anche riutilizzare, può combinarle: può combinare le informazioni tra loro. E questo ha una rilevanza rispetto a quello che può emergere da questa combinazione delle informazioni e quindi dei dati personali delle persone, perché ovviamente attraverso la combinazione di diverse informazioni posso avere delle rappresentazioni virtuali delle persone e attraverso queste rappresentazioni virtuali delle persone allora le posso in qualche modo categorizzare, individualizzare rispetto ai loro gusti, alle loro preferenze, alle loro abitudini. Da qui l’originario diritto alla riservatezza come “right to be let alone” ovviamente diventa un po’ insufficiente e quindi si richiedono delle nuove forme di tutela delle persone fisiche.

    Un primo momento di questo percorso si ha innanzitutto con il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (l’articolo 16), con il Trattato sull’Unione Europea (all’articolo 39) e in particolare la Carta di Nizza. La Carta di Nizza è la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che all’articolo 8 esprime la definitiva separazione tra la vecchia concezione della privacy e la nuova concezione della privacy, quindi da riservatezza a protezione del trattamento dei dati personali. Perché all’articolo 8 della Carta di Nizza viene proprio posto il diritto alla protezione dei dati personali come un diritto che ha una posizione del tutto autonoma e distinta rispetto alla riservatezza, che infatti è indicata nella Carta di Nizza l’articolo 7. Quindi abbiamo l’articolo 7 che ci parla della riservatezza e quindi del diritto alla riservatezza rispetto alla propria vita familiare e personale privata e poi l’articolo 8 invece il diritto alla privacy modernamente inteso e quindi come diritto di ogni individuo ad essere tutelato di fronte al trattamento dei dati personali che lo riguardano.

    Da un punto di vista invece più strettamente di legislazione nazionale, il primo intervento italiano di riconoscimento del diritto alla protezione dei dati personali lo abbiamo nel 1996. Nel 1996 il legislatore recepisce con la legge 675 la direttiva del 1995 n.46. Quindi la prima legge italiana è la 675 del 96 di recepimento della direttiva 46 del 95 che poi è stata in un secondo momento modificata e integrata dal decreto legislativo del 2003 n. 196; quest’ultimo è quello che noi chiamiamo Codice della Privacy. La nostra principale fonte a livello nazionale che finalmente contiene norme relative al trattamento dei dati personali in una duplice ottica: non soltanto come tutela dei diritti della personalità (tutela dell’individuo in quanto tale), ma anche con un primo approccio di regolazione rispetto alla circolazione dei dati personali.

    Questo aspetto è estremamente importante perché poi è al centro del regolamento del 2016, il Regolamento Europeo del 2016 n.679, che è noto con l’acronimo GDPR che sta per General Data Protection Regulation: è oggi la nostra fonte principale. Non è venuto meno il Codice della Privacy, è ancora in vigore, però è stato completamente toccato dalla presenza del GDPR. Innanzitutto una nota sulla fonte normativa: il regolamento. Siamo di fronte ad un regolamento dell’Unione Europea, il Regolamento è una fonte normativa comunitaria estremamente importante perché il Regolamento è, in quanto tale, direttamente applicabile in tutti gli Stati membri. Ciò vuol dire che con il Regolamento si vanno a perseguire obiettivi di uniformazione. Questo aspetto è estremamente importante perché il precedente atto normativo dell’Unione Europea era stata una direttiva (la direttiva del 1995 n. 46) e questo è un cambio anche a livello culturale estremamente importante perché la direttiva come fonte di produzione normativa europea ha una funzione diversa. La direttiva deve essere recepita negli ordinamenti nazionali. quindi serve un atto normativo del legislatore nazionale che recepisca la direttiva e le direttive non devono essere applicabili così come sono scritte, perché le direttive impongono obblighi agli Stati da un punto di vista delle finalità, ma non dal punto di vista delle modalità di perseguimento del fine. Pertanto il modo in cui si persegue la finalità può cambiare da Stato a Stato e questo è estremamente rilevante in questa materia, perché se la direttiva deve essere recepita da ogni Stato, ogni Stato, poi, ha la propria legge interna di regolazione di un certo fenomeno, in questo caso la protezione dei dati personali e ciò può condurre ad una frammentazione, frammentazione a livello comunitario può voler dire incertezza e quindi siamo di fronte poi ad un sistema che prevede delle tutele diverse in base allo Stato di appartenenza. Quindi con il Regolamento abbiamo la uniformazione del diritto e con le direttive la cosiddetta armonizzazione.

    Ci si è resi conto negli anni che il progresso delle tecnologie informatiche era talmente significativo che occorreva intervenire in modo più incisivo a livello comunitario e quindi si sceglie la strada del Regolamento e il legislatore italiano ha dovuto prevedere con un decreto legislativo, il Decreto legislativo n.101 del 2018, delle norme di coordinamento tra la vecchia disciplina, quindi quella del Codice della Privacy del 2003, e la nuova disciplina del GDPR che è del 2016 ed entrato in vigore nel maggio 2018.  Quindi il decreto legislativo 101 del 2018 si è dovuto occupare di coordinare la disciplina nazionale con quella comune a tutti gli Stati membri dell’Unione europea.

    Un aspetto estremamente rilevante del GDPR è che il GDPR porta alla massima valorizzazione e alla massima esaltazione quel dualismo che indicavo prima con riferimento al Codice della Privacy. Perché il GDPR segue un’impostazione duale che però non va letta in una logica di contrapposizione ma invece come una complementarietà degli obiettivi che persegue: da un lato il GDPR ha come obiettivo fondamentale la protezione dell’interessato, quindi il soggetto che subisce il trattamento dei suoi dati personali, accanto c’è però quello della promozione e della tutela della circolazione dei dati. Questa promozione, questa tutela va oltre la sfera dell’individuo perché si pone più in una logica di mercato. Il mercato, l’economia attuale è strettamente fondata attorno alla circolazione dei dati e quindi automaticamente occorreva guardare non solo alla logica della persona, ma anche alla regolazione del fenomeno per come tocca gli aspetti che riguardano l’economia.

    La logica diviene quindi quella di tutelare l’individuo e regolare la circolazione delle informazioni.

    E quindi possiamo dire che rientra a pieno titolo in quelli che ad oggi consideriamo i diritti fondamentali delle persone, il diritto alla protezione dei dati personali. E sono dei diritti fondamentali anche se in realtà quantomeno in Italia la Costituzione non li nomina. La Costituzione italiana non fa riferimento a questa situazione giuridica soggettiva quindi a quella situazione che riguarda la necessità di proteggere i dati personali delle persone. Ovviamente la nostra Costituzione è troppo risalente e non è stata modificata di recente per introdurre questo aspetto. Benchè non ci sia una indicazione esplicita nella nostra Carta, in realtà nel momento in cui la protezione dei nostri dati personali come diritto fondamentale noi lo andiamo a considerare come un diritto che concerne la circolazione delle nostre informazioni e quindi se si parla di circolazione si parla di rappresentazione verso l’esterno della nostra personalità, cioè si parla di informazioni che ci riguardano che in qualche modo stanno uscendo dalla nostra sfera più stretta, più intima di controllo personale. Quindi in questo senso la circolazione delle informazioni va letta come una esternazione delle caratteristiche della nostra personalità e quindi inevitabilmente va a toccare quella che è la nostra rappresentazione verso l’esterno. Se parliamo di rappresentazione verso l’esterno ci stiamo configurando in una posizione di relazione verso l’esterno quindi relazione con il prossimo, sia il prossimo un’altra persona fisica, sia il prossimo un’autorità pubblica, sia il prossimo un privato che agisce nella sua dimensione di attività commerciale o professionale. E quindi se ci posizioniamo nell’ambito di una attività di relazione possiamo ricondurre questo nuovo riconoscimento del diritto alla protezione dei dati personali all’interno dell’articolo due. L’articolo due, il cosiddetto trasformatore permanente della Costituzione perché è l’articolo che permette più di tutti di adeguare la protezione delle persone rispetto alla trasformazione della società negli anni, permette anche di riconoscere una “casa” per la protezione dei dati personali anche a livello costituzionale: possiamo riconoscere a livello costituzionale interno nell’articolo due in una funzione di costituzionalizzazione. In particolare con riferimento alla Corte Costituzionale vi è una sentenza rilevante addirittura del 73 la n. 38, che è particolarmente rilevante perché ha segnato la giurisprudenza di merito e di legittimità successiva perché con questa sentenza è stato proprio riconosciuto l’inserimento della riservatezza (ovviamente nel 73 ancora non si parlava di trattamento dei dati) all’interno dei diritti inviolabili dell’uomo. Quindi questa concezione della riservatezza, della privacy come un diritto inviolabile e quindi come un valore primario del nostro ordinamento costituzionale.

    Ovviamente la questione si estende nel tempo perché dalla riservatezza passiamo alla protezione dei dati personali, perché di fronte allo sviluppo tecnologico – è vero che siamo di fronte a dei fattori che ormai sono da tutti considerati come strumenti tecnologici estremamente significativi per la crescita del benessere, per il miglioramento della qualità della vita – ci si è resi conto nel tempo di quanto siano altrettanto capaci di incidere poi negativamente sulle persone, sui diritti fondamentali delle persone, in tutti quei casi in cui il trattamento dei dati delle persone non dovesse essere fatto con le opportune garanzie. Da questo punto di vista il passaggio fondamentale, il cambio di mentalità si ha principalmente con il Codice della privacy che permette appunto questo collegamento molto stretto, questo avvicinamento tra la protezione dei dati personali e i diritti inviolabili, questa concezione di inviolabilità dell’essere umano che è tipicamente costituzionale. Ciò avviene nel Codice della privacy mediante il riconoscimento del diritto alla protezione dei dati che si fonda su due principi fondamentali: il primo principio è quello cosiddetto del livello elevato di tutela, quindi il livello elevato di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo, il secondo è il principio di necessità del trattamento di dati che si riferiscono ad una persona. Il Codice della Privacy del 2003 è l’innovazione da questo punto di vista, perché il precedente riferimento normativo che era la legge 675 del 96 si limitava a garantire che il trattamento dei dati delle persone, quindi il trattamento dei dati personali, si realizzasse nel rispetto dei diritti e delle libertà e della dignità delle persone fisiche. Quindi noi nel 96 parliamo di trattamento che deve essere rispettoso dei diritti appunto e delle libertà e della dignità delle persone, però è come se stessimo scindendo i due momenti, invece con il Codice della Privacy del 2003 andiamo a considerare quella stessa protezione dei dati personali come tutela dei diritti, delle libertà e delle dignità dell’individuo. Qui non sono due cose che si affiancano, ma appunto diventa un ragionamento unico.

    Il primo principio che guida il codice del 2003 è il principio di elevata tutela. L’elevata tutela comporta che i poteri pubblici si devono impegnare in modo effettivo alla protezione dei dati personali. È importante questa parola impegnare perché si impone uno specifico obbligo di protezione. Quindi non è soltanto una pretesa di astenersi dal generare conseguenze negative alla sfera intima della persona, non è una logica difensiva del diritto, è una logica al contrario positiva, una logica di tutela, è una logica proattiva che impegna verso la disposizione di strumenti di tutela. Per quanto riguarda invece il secondo principio: è il principio di necessità che guida il codice della privacy. Parliamo di principio di necessità nel trattamento dei dati che si traduce nella riduzione al minimo di dati da utilizzare. Quindi la logica è che quando si svolge un’attività di trattamento dei dati personali si deve ridurre il più possibile i dati, la quantità di dati che vengono utilizzati per perseguire la finalità che il trattamento persegue. Quindi utilizzerò soltanto i dati che sono necessari a perseguire le finalità del trattamento. In questo senso capiamo un ulteriore passaggio della differenza tra la vecchia concezione della privacy, quella strettamente connessa alla riservatezza, e la nuova concezione della privacy legata al trattamento dei dati, potendo dire che con la riservatezza siamo di fronte ad un diritto dal contenuto negativo, negativo nel senso di contenuto che è rivolto alla esclusione dei terzi dall’ingresso nella nostra sfera più intima, quindi da qualsiasi ingerenza di terzi nella nostra vita privata. Quindi contenuto negativo nel senso di difensivo. Quando invece parliamo di privacy come trattamento e protezione dei dati personali, parliamo di un diritto che ha un contenuto positivo, è il diritto affinché il trattamento dei dati avvenga in modo corretto, è il dirittoaffinché chi tratta i dati segua delle regole di gestione di questi dati e che chi fornisce i propri dati abbia la possibilità di autodeterminarsi a livello informativo quindi possa autodeterminare il singolo quali, quanti e come debbano circolare i dati che lo riguardano. Quindi contenuto positivo come impegno per chi li tratta e come autodeterminazione informativa per chi subisce il trattamento.

    Ora torniamo al contenuto proprio del GDPR. Ovviamente teniamo sempre a mente che il GDPR costituisce per noi il perno su cui si basa tutta la costruzione della visione europea del trattamento dei dati e dello sviluppo dell’economia digitale. Vediamo però adesso qualche aspetto fondamentale del GDPR innanzitutto dal punto di vista del lessico per capire tutta una serie di parole che che troviamo e quindi diremo innanzitutto che cos’è il dato personale. Il dato personale ci viene indicato dall’articolo 4 del GDPR al n.1, come qualsiasi informazione che si riferisca ad una persona fisica identificata o identificabile. Identificabile s’intende quella persona che può essere identificata anche in modo indiretto e quindi attraverso un nome, un numero di identificazione, uno pseudonimo, un identificativo online, oppure attraverso altri elementi del suo fisico o dei suoi geni o altri riferimenti alla sua identità dal punto di vista sociale, culturale, economico o politico, qualsiasi tipo di informazione che ci permetta poi di ricondurre quel dato, quell’informazione a una persona fisica. Quando parliamo invece di trattamento dei dati personali, sempre all’articolo 4 del GDPR, parliamo di qualsiasi operazione, quindi nella nozione di trattamento facciamo rientrare qualsiasi operazione o anche insieme di operazioni che siano applicate ai dati personali. Quindi qualsiasi attività rivolta ai dati personali: può essere un’attività di raccolta, può essere un’attività di registrazione, può essere un’attività di conservazione, un’attività di estrazione, un’attività di uso, di diffusione ma anche di modifica dei dati. Quando si svolge una o più di queste condotte allora siamo di fronte ad un trattamento dei dati. Chi è quindi il titolare del trattamento? il titolare del trattamento può essere una persona fisica, può essere una persona giuridica, un ente, oppure può essere anche una autorità pubblica, ciò che ci interessa è che il titolare del trattamento è il destinatario praticamente di quasi tutti gli obblighi contenuti nel GDPR. Il GDPR presenta un elenco particolarmente significativo di obblighi che sono rivolti proprio ai titolari sempre nella logica di protezione dei dati personali. In particolare, usando un sunto, il titolare del trattamento ha il compito di adottare tutte le misure necessarie alla protezione dei dati delle persone fisiche. La logica dell’adozione di queste misure è ovviamente quella di evitare o comunque di ridurre il più possibile i rischi che i dati vengano persi o ne vengano in possesso terzi non autorizzati. Queste misure sono rivolte al titolare, è il titolare che deve individuare quali siano le migliori modalità con cui proteggere i dati; ovviamente imponendo degli obblighi al titolare del trattamento, il legislatore, come si fa sempre nella produzione normativa, riconosce anche dei diritti all’interessato. Chi è l’interessato? Ogni volta che diremo la parola l’interessato ci stiamo riferendo alla persona i cui dati personali sono trattati. E questi diritti sono tutti diritti attraverso i quali l’interessato può controllare il flusso di informazioni che lo riguardano. In questo modo, quindi, può impedire che il trattamento dei suoi dati possa essere effettuato con modalità tali da ledere la sua sfera morale e la sua sfera personale. Quindi proprio dei diritti riguardanti il momento del trattamento io interessato ho la possibilità, attraverso il GDPR, di incidere rispetto le modalità con cui i miei dati sono trattati dal titolare: ad esempio sono riconosciuti i diritti all’aggiornamento, alcune informazioni che mi riguardano sono modificate e io le voglio aggiornare, modificare, le voglio rettificare, le voglio integrare o le voglio cancellare; non sono più disposto a che i miei dati siano nella disponibilità di un certo titolare quindi li voglio cancellare. La cancellazione dei dati personali è un riferimento importante perché il GDPR riconoscere per la prima volta anche il cosiddetto diritto all’oblio, che però è diverso dalla cancellazione, perché la cancellazione riguarda la situazione in cui i dati che io ho permesso che venissero utilizzati rispetto ad un certo fine non sono più necessari oppure non sono più io interessato a che vengano trattati da quel titolare. Il diritto all’oblio invece, riconosciuto all’articolo 17 del GDPR, è diverso perché riguarda proprio il diritto a far dimenticare informazioni, fatti, che riguardano il mio conto come interessato, quindi l’oblio come diritto a far dimenticare quando magari una certa informazione, un certo fatto non è più di interesse per la collettività e quindi voglio che non venga più fatto circolare nel senso che venga fatto dimenticare; invece la cancellazione riguarda proprio la cancellazione di dati rispetto ad uno specifico, a una specifica attività di trattamento.

    Ultimo riferimento importante dal punto di vista di base del GDPR è il consenso. Il consenso è uno dei modi con cui si permette l’attività di trattamento. L’articolo 6 del GDPR fa riferimento proprio alla manifestazione del consenso dell’interessato come base giuridica per il trattamento. Quindi il trattamento da parte del titolare è permesso dal consenso dell’interessato che lo deve manifestare. Il consenso innanzitutto deve essere prestato in forma espressa, sia oralmente che per iscritto, è importante appunto che sia espresso, cioè che si sostanzi in un atto positivo idoneo a manifestare l’intenzione di asserire al trattamento. In ogni caso, la regola importante del consenso è che può essere revocato in qualsiasi momento: posso in qualsiasi momento revocarlo e non devo nemmeno dare una motivazione sulla revoca.

    Quali sono però i contenuti di questo consenso? Il consenso affinché sia valido, affinché il consenso possa costituire la fonte di un trattamento di dati personali deve avere 4 caratteristiche che, ovviamente, devono sussistere contemporaneamente, non sono alternative tra loro:

    • la prima caratteristica è che il consenso deve essere inequivocabile. Inequivocabile vuol dire che l’interessato non deve avere alcun dubbio al fatto che con quel consenso permette un trattamento dei dati. Quindi l’inequivocabilità la individuiamo proprio nel nesso tra il consenso e il trattamento. Quindi quella mia manifestazione di consenso deve riguardare un trattamento dei dati personali;
    • il secondo requisito è che il consenso deve essere informato. Informato vuol dire che deve essere un consenso che sia pienamente consapevole dell’attività che verrà svolta. E quindi deve trovarsi l’interessato trovarsi di fronte ad una informativa da parte del titolare che sia comprensibile, facilmente accessibile e resa in un linguaggio chiaro e comprensibile, dal quale emerga appunto tutto ciò, tutte le informazioni necessarie che riguardano il trattamento;
    • il terzo requisito è la specificità, il consenso deve essere specifico, specifico vuol dire che deve essere prestato per ognuna delle finalità del trattamento. Quindi se il trattamento persegue una finalità è specifico di fronte a quella finalità, se il trattamento persegue più finalità individuate dal titolare del trattamento allora il consenso deve essere prestato per ciascuna di queste finalità che il titolare intende svolgere. Il consenso deve essere specifico perché il soggetto interessato deve avere la possibilità di raffigurarsi tutti quelli che potranno essere gli effetti scaturenti dal suo consenso;
    • il quarto elemento è che il consenso deve essere libero. Libero vuol dire che il consenso deve essere prestato in assenza di qualsiasi forma di condizionamento.

    Ora possiamo spendere a livello strettamente tecnico-giuridico qualche parola su questo consenso e in particolare sulla natura del consenso perché come abbiamo detto la protezione dei dati personali è un diritto fondamentale. E i diritti fondamentali sono diritti che noi riteniamo diritti assoluti, diritti indisponibili, diritti intrasmissibili, diritti imprescrittibili. Quindi sono i diritti quanto più fortemente riconosciuti alle persone in quanto tali. In questo senso, visto che la protezione dei dati personali è un diritto fondamentale, alcuni autori (il tema è aperto e ci sono diverse prospettive), hanno ritenuto che il trattamento dei dati, anzi il consenso al trattamento dei dati, non ha una valenza dispositiva. Perché? Perché non riguarda una proprietà di cui si dispone e che quindi si cede ma riguarda la persona. Il consenso dell’interessato ha un riferimento che afferisce alla persona in modo costitutivo e quindi il consenso può essere una autorizzazione, può essere un atto di autorizzazione, ma non può avere valenza negoziale come se fosse un contratto e quindi il titolare del trattamento è vero che è legittimato a trattare i dati perché c’è stato il consenso, però i dati secondo questa logica continuano ad essere della persona che ha prestato il consenso. Quindi non c’è una cessione in senso stretto perché i dati col fatto che afferiscono alla persona in modo proprio costitutivo e che afferiscono alla sua sfera personale allora rispetto a questi dati non viene meno la relazione di appartenenza a colui che presta il consenso e quindi l’atto di autorizzazione in questo senso sarebbe un atto che ha il risultato di rendere lecita un’attività che altrimenti sarebbe illecita. D’altra parte ci sono invece altri autori, altri giuristi della dottrina che invece sostengono che il consenso abbia una valenza negoziale, quindi che il dato sia qualcosa che io cedo come cedo un bene. Quindi si parla in questo senso di reificazione dei dati perché io come cedo un bene ceodo i miei dati personali e quindi nel momento in cui presto il consenso cedo i miei dati che entrano nel mercato e circolano nel mercato in quanto beni suscettibili di una loro valutazione economica che quindi poi seguirà le regole del mercato.

    Torniamo Regolamento e a tutto ciò che riguarda l’importanza del GDPR proprio come strumento per superare una legislazione nazionale frammentata nell’Unione Europea e quindi poi per superare i profili di incertezza rispetto alla protezione, alla circolazione di dati. Con lo strumento del Regolamento siamo arrivati alla possibilità di incentivare lo sviluppo e la diffusione dei mercati digitali in Europa in generale nell’ottica di creare un po’ quello che è un clima di fiducia rispetto a una circolazione di dati per i cittadini dell’Unione europea. Il GDPR in ciò rende effettivamente chiaro il cambio di mentalità proprio perché la direttiva europea del 95 era una direttiva che aveva una concezione un po’ più statica della protezione della privacy mentre appunto con il Regolamento andiamo verso una considerazione dinamica. Quindi una tutela non solo in riguardo all’utilizzo delle informazioni che ci riguardano e che quindi noi possiamo permettere con il consenso, ma una tutela dinamica proprio perché l’interessato può in qualche modo seguire i dati, seguire la circolazione dei dati che lo riguardano e quindi intervenire a propria protezione in ogni fase della della circolazione che avviene chiaramente sulla Rete. E tornando appunto al GDPR notiamo come questa forma di tutela è tanto significativa che addirittura ci permette di tutelare i nostri dati personali non solo come dicevamo prima nei confronti in generale dei titolari che possono essere soggetti pubblici e soggetti privati ma addirittura a proteggerci dai titolari indipendentemente da stretti limiti territoriali. L’applicazione territoriale del regolamento, che è indicato all’articolo 3 del GDPR, è particolarmente interessante perché l’ambito di applicazione va oltre l’Unione Europea. Quindi, anche se abbiamo un provvedimento normativo UE, abbiamo una tutela che va oltre i confini dell’Unione. L’unica cosa che rileva, quindi, non è il luogo in cui avviene il trattamento dei dati, ma il luogo in cui è stabilito il titolare del trattamento oltre che l’interessato chiaramente, perché se io tutelo con la mia normativa un interessato ovviamente sto parlando del cittadino europeo quindi del cittadino dell’Unione europea e degli Stati membri dell’Unione europea. Però se il cittadino da tutelare europeo e il titolare è stabilito nel senso fisico proprio nell’Unione europea allora io potrò tutelare, potrò esercitare tutti i diritti che sono riconosciuti dal GDPR e potrò imporre al titolare tutti gli obblighi che sono imposti dal GDPR, anche se il trattamento poi avviene fuori dall’Unione europea. Per quanto riguarda gli obblighi imposti ovviamente la tutela sta nel fatto che il titolare che non si dovesse conformare agli obblighi imposti sarà soggetto alle attività del Garante della protezione dei dati personali. Grandi piattaforme digitali o comunque grandi poteri privati, grandi imprese, sono costantemente oggetto di attenzione nella loro attività da parte dei garanti nazionali della protezione dei dati personali, perché poi spesso un singolo cittadino non ha nemmeno gli strumenti per rendersi conto di come i suoi dati sono stati trattati e quindi a questo punto l’attività svolta dal Garante è estremamente rilevante, estremamente significativa a tutela della collettività perché possono poi condurre a delle sanzioni pecuniarie di importi estremamente elevati che costituiscono poi l’unico vero disincentivo alla violazione degli obblighi del GDPR. 

    Se è fondamentale, infine, per l’applicazione del GDPR lo stabilimento del titolare nell’Unione europea ci sono casi addirittura in cui non si applica nemmeno questa regola e quindi la disciplina del GDPR si applica anche in mancanza dello stabilimento nel territorio dell’Unione Europea da parte del titolare e questi casi sono due e sono il caso in cui il trattamento di dati personali riguardi l’offerta di beni o la prestazione di servizi agli interessati, anche se l’offerta di beni o la prestazione di servizi avviene in mancanza di un corrispettivo. E poi la seconda ipotesi è quella in cui le attività di trattamento dei dati personali riguardino il monitoraggio dei comportamenti tenuti dagli interessati e ciò ha valore principalmente in tutti quei contesti di trattamento che utilizzi tecniche di profilazione, tecniche di tracciamento delle persone fisiche e che quindi siano delle tecniche che, profilando, tracciando le persone, permettano poi ai titolari del trattamento di adottare delle decisioni riferite a queste stesse persone, analizzare i loro comportamenti, prevedere le loro preferenze che possono essere le loro preferenze di consumo ma anche le loro preferenze personali, in tutti questi casi la portata applicativa del GDPR riguarda addirittura i titolari che non siano stabiliti nell’Unione europea. Questo è un elemento molto caratteristico della legislazione europea che segna la forza di questo strumento di regolazione di cui si è dotata l’Unione nel 2016, secondo una logica per cui se le informazioni, i dati personali delle persone possono circolare come avviene tramite internet a livello globale, allora anche la protezione che voglio fornire ai miei cittadini va oltre i miei limiti territoriali e cerco di estenderla il più possibile anch’essa a livello globale. È un aspetto di attenzione alla privacy estremamente significativo ed esteso e tale aspetto tra l’altro lo ritroviamo anche in quella essere la definizione del dato personale perché la definizione del dato personale è molto ampia. Perché se dico che è qualsiasi informazione con cui posso identificare una persona fisica, con questo sto dando una nozione molto ampia perché qualsiasi informazione vuol dire che se l’informazione la trovo cartacea, informazione alfabetica, numerica, acustica, fotografica, qualsiasi tipo di informazione qualunque sia la forma in cui l’informazione mi viene espressa e attraverso qualsiasi di queste informazioni posso identificare una persona e quindi tutte queste informazioni sono un dato personale, è una nozione estremamente ampia. E qual è la logica, la logica è la stessa di prima quindi così come estendo il più possibile a livello territoriale con una nozione così ampia di dato personale, pure posso estendere la tutela il più possibile perché mi permetto come legislatore europeo, di individuare in futuro tutta una serie di nuove situazioni che nel 2016 non posso considerare perché magari nel 2016 io conosco un livello di raggiungimento delle tecnologie tale per cui posso immaginarmi certe situazioni di tutela, invece così riesco a permettere un’evoluzione dell’applicazione GDPR anche attraverso le nuove situazioni che l’evoluzione tecnologica mi presenterà. Quindi una nozione di dato elastica, un nozione di dato onnicomprensiva e quindi idonea ad adeguarsi poi a tutte le situazioni che in futuro toccheranno la sfera dei dati personali delle persone fisiche perché le innovazioni e tutte le modalità con cui si permette il trattamento dei dati è in costante evoluzione. Pensiamo ora a tutto quello che ovviamente toccherà questa materia la prossima l’entrata in vigore del regolamento sull’intelligenza artificiale. Un tema completamente nuovo ma che costringe il legislatore ovviamente a stare al passo con l’evoluzione tecnologica e quindi queste nozioni ampie e poi questa portata territoriale anche particolarmente estesa permette di far fronte il più possibile all’esigenza di tutela: l’esigenza di tutela della persona che si affianca al bilanciamento degli interessi del mercato legato ai dati personali.